Molto si è detto sui recenti provvedimenti legislativi che rilanciano il “voto di comportamento” come strumento di controllo e di gestione dei comportamenti all’interno delle istituzioni scolastiche. Se ne è parlato soprattutto per metterne in evidenza l’esplicito autoritarismo, ma anche per criticarne l’effettiva efficacia, messa in dubbio da chi forse reclama misure ancora più severe per “ripristinare la cultura del rispetto” e “affermare l'autorevolezza dei docenti”, come recita il Ddl 924-bis. C’è stato poi chi ha messo in evidenza la funzione colpevolizzante della norma, che potrebbe avere un impatto negativo sul benessere delle e degli studenti, ridotti al rango di problemi da risolvere.

Proprio quest’ultimo aspetto merita di essere approfondito, poiché apre a scenari ancora più inquietanti sul ruolo che questo governo assegna alla scuola e sul posto che le persone minorenni dovrebbero occupare nella società. Secondo un atteggiamento tipico delle destre europee, impegnate su più fronti a combattere le istanze di liberazione delle nuove generazioni, anche in Italia sembra infatti venuto il momento di ribadire la tradizionale separazione tra mondo adulto e mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, e di affermare che quest’ultimo non è abitato da persone titolari di diritti, bensì da persone subordinate che devono stare al loro posto e comportarsi in modo da meritarsi la promozione alla fase successiva.

Il problema della serenità

La scuola, in questa prospettiva, non è da intendersi come servizio pubblico funzionale alla rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona e la partecipazione alla vita del Paese (art. 3 della Costituzione), né tantomeno come un luogo in cui si promuove lo sviluppo della cultura (art. 9), ma è semplicemente il «contesto lavorativo degli insegnanti e del personale scolastico». Un posto di lavoro a cui occorre – dice ancora la norma approvata in Senato – «restituire piena serenità».

Una serenità turbata dalla presenza di studenti non desiderabili o comunque non conformi dal punto di vista comportamentale alle aspettative di insegnanti e personale scolastico. Così, come se non fossero sufficienti il codice civile e il codice penale, lo Stato intende conferire a scuole e insegnanti il potere di definire un sistema di regole e di punizioni funzionale al mantenimento dell’ordine. Va almeno riconosciuta l’onestà intellettuale di chi ammette espressamente il valore politico di qualsiasi atto di valutazione, che si configura come una forma di gestione del potere.

La “buona condotta” 

Altrettanto significativa in questo senso è la continua confusione tra voto di condotta e voto di comportamento, su cui vale la pena soffermarsi. Il voto di condotta, introdotto da un Regio Decreto del maggio 1923, nasce in una scuola d’impianto militaresco-carcerario, in cui si parla espressamente di promozione come di qualcosa che viene “conferito” agli alunni in seguito a un voto sufficiente in “profitto” e uno in “condotta”, laddove per condotta s’intende un modo di comportarsi degno, un contegno o un costume che non sia riprovevole.

In ambito carcerario per buona condotta si intende appunto il comportamento leale e corretto del detenuto durante l’esecuzione della pena.

Abolito nel 1999 in seguito all’introduzione dell’autonomia scolastica, il voto di condotta risorge sotto forma di “valutazione del comportamento” per volontà della ministra Gelmini, che nel 2008 mette mano alla legge allo scopo di «tornare alla scuola del rigore», perché – sono parole sue – «sappiamo che l’aumento degli episodi di bullismo preoccupa molto genitori e insegnanti».

Sostituendo la condotta con il comportamento, il legislatore opera dunque una sottile e insidiosissima manipolazione: pur sapendo di collocarsi nel solco di una specifica tradizione educativa pre-democratica, che vede nel voto di condotta un deterrente e uno strumento di controllo della persona, finge di aderire alla più democratica esigenza di valutare il comportamento come elemento costitutivo dell’apprendimento.

Istruire senza educare

Se nel 1923 la condotta andava a integrare il “profitto”, nel 2008 il comportamento va ad affiancare quello che a scuola si definisce “rendimento”, secondo una logica che rispecchia una concezione della valutazione e dell’insegnamento profondamente anti-scientifica, e anche per questo ampiamente condivisa da un’opinione pubblica poco incline a riconoscere il valore delle scienze pedagogiche e della ricerca educativa. Ma è davvero possibile, nel 2024, prestare fede e una visione dell’apprendimento che tiene nettamente separato il corpo dalla mente, e che oltretutto vede i corpi come entità isolate dall’ambiente? Dobbiamo davvero credere che sia possibile concepire un’istruzione senza educazione, una trasmissione di conoscenze separata dagli atteggiamenti dell’individuo? Davvero pensiamo che sia ancora sostenibile una scuola che premia con un 9 un’interrogazione sulla storia dei campi sterminio e punisce con un 5 in condotta chi pratica e predica l’antisemitismo, anche quando si tratta della stessa persona?

È giusto chiedersi se non sia invece preferibile lasciare a chi educa la responsabilità di valutare i progressi fatti nello sviluppo di quelle che vengono definite competenze personali e sociali, le quali devono essere obbligatoriamente allenate, sviluppate, valutate e certificate durante i primi dieci anni di scuola nell’ambito di ogni materia scolastica, dalla storia alla matematica, nessuna esclusa. Certo, si tratta di un compito complesso, che ogni scuola cerca di affrontare da almeno un decennio senza avere strumenti sufficienti a disposizione e sapendo di non poter contare sui poteri centrali, troppo impegnati a usare la scuola per compiacere i più anziani, i quali amano rimpiangere un’imprecisata età dell’oro dell’istruzione, e per creare un clima di paura e di sfiducia nelle nuove generazioni.

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