Serve un salto di visione per rafforzare l’Unione europea, e nello specifico sono indispensabili un bilancio europeo e una politica fiscale comune.

Almeno tre ragioni li reclamano: anzitutto, il finanziamento di beni comuni europei, dalla difesa alla transizione climatica e digitale, alla creazione di catene di produzione europee di beni tecnologicamente avanzati in progetti comuni. In secondo luogo, c’è la necessità di unificare le piattaforme fiscali e di evitare paradisi fiscali interni all’Ue che consentono un’elusione persistente. La terza ragione si trova nell’impossibilità di mantenere asimmetria tra politica monetaria europea e politiche fiscali di bilancio nazionali.

I limiti del Patto

Il ritorno alla logica del Patto di stabilità, ancorché un poco più flessibile del precedente, è deludente. Si prevede che opererà con margini più laschi, ma è pur sempre composto dai numeri del tutto irrealistici scritti nel Trattato: un tetto al deficit annuo del 3 per cento e un rapporto debito/Pil del 60 per cento. Oggi la Francia supera il 110 per cento e l’Italia il 140 per cento. Sono regole e numeri uguali per tutti, e come è stato già notato in sede europea, è difficile pensare che siano compatibili con gli altri obiettivi del piano.

Infine – e questo è da considerarsi come il fatto più grave – il nuovo patto impone l’inclusione nella contabilità del deficit dell’importo complessivo delle spese; include cioè interessi e investimenti, accanto alle spese correnti. Tornare a unificare spese correnti e spese per investimenti nella contabilità fiscale europea è un errore teorico che fa violenza ai principi macroeconomici elementari. Non tenere conto delle diverse diseguaglianze, crescenti nei paesi membri, è un errore politico, che non può che allontanare ancor più i cittadini dalla responsabilità del voto.

La trappola: rigoristi e deflazione

Se non rispettato è solo un pegno politico formale pagato ai rigoristi del Consiglio europeo, alla Germania in particolare che lo ha fortemente voluto; se rispettato, anche parzialmente, impone un indirizzo deflattivo all’intera economia dell’Unione, oggi già in affanno. Nelle previsioni del Fondo Monetario Internazionale, pur riviste al rialzo in aprile, l’Eurozona dovrebbe crescere nel 2024 meno dell’1 per cento (cioè dello 0,8), l’Italia dello 0,7 per cento come la Francia, la Germania dello 0,2 per cento, a fronte di una crescita di circa 2,7 punti percentuali degli Stati Uniti, del 6,8 per cento dell’India e del 4,6 della Cina (i dati sono del Fondo monetario internazionale).

Apparentemente, l’impostazione del Patto di stabilità è di medio termine, nelle regole transitorie, visto che lascia un tempo tra i quattro e i sette anni per i piani di adeguamento del debito sotto il monitoraggio della Commissione europea. Ma l’Italia nel 2023 ha registrato un deficit del 7,4 per cento del Pil. Ciò fa prevedere quindi una procedura di infrazione nel 2024 e l’aggiustamento (con eventuali sanzioni) da lasciare in eredità al prossimo governo per gli anni successivi.

Equilibri saltati

Al contrario, il progetto della Commissione europea – prima della svolta restrittiva imposta dalla Germania – era sostenibile. Soprattutto escludeva dal deficit gli investimenti, oggi quanto mai necessari per rafforzare l’economia e compiere il salto tecnologico essenziale alla crescita competitiva europea, richiamata da Mario Draghi e declinata nelle sue diverse voci dal Rapporto Letta sul mercato comune. E, cosa non banale, trascurava i vincoli quantitativi, «i numeri stupidi», del precedente patto.

Il governo italiano guidato da Giorgia Meloni però non ha costruito alleanze né forza negoziale, quando poteva, ad esempio con la Francia, distinguendosi invece nell’incomprensibile voto contrario al Mes, unico tra i paesi membri. Oggi sembra procedere su quella via.

Resta da sperare che un cambiamento giunga dall’Europa, consapevole che la crescita è un’urgenza improrogabile, da finanziare anche con un bilancio europeo.

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