I consumatori dei paesi a maggioranza musulmana nel Sud-est asiatico hanno scoperto di avere un potere non da poco per esprimere il loro dissenso contro la guerra in Medio oriente. Anzitutto, una campagna di boicottaggio ha preso di mira le grandi catene occidentali di fast food.

Fast crisi

In Malaysia, Kentucky Fried Chicken (Kfc) ha «temporaneamente chiuso» oltre cento locali, a causa di sopraggiunte «difficili condizioni economiche». In Indonesia, Starbucks Coffee ha registrato una perdita netta nel trimestre gennaio-marzo 2024. Anche il ceo di McDonald’s, Chris Kempczinski, ha dichiarato che le vendite internazionali sono in calo. Una campagna di boicottaggio ha preso di mira le grandi catene occidentali di fast food, e non solo.

In Malaysia il sessanta per cento della popolazione è di religione musulmana. Dall’inizio della guerra a Gaza il governo di Kuala Lumpur si è espresso pubblicamente in sostegno della popolazione gazawi definendo «ipocrita» la posizione di buona parte dei paesi occidentali rispetto alla crisi. «Si tratta di questioni umanitarie», aveva detto a Nikkei Asia il primo ministro malese, Anwar Ibrahim, a margine degli incontri del vertice Asean-Giappone che si sono tenuti nel dicembre 2023. «Direi che questa ipocrisia si sta verificando in molti dei sedicenti paesi che promuovono la democrazia e i diritti umani».

Indignati d’Indonesia

Anche in Indonesia l’indignazione per la crisi umanitaria nella Striscia di Gaza, e per la postura incerta adottata da una parte della comunità internazionale, è diffusa. «Sono l’orgoglioso presidente eletto del paese con la più grande popolazione musulmana al mondo. Gli abitanti di Gaza sono nostri fratelli e sorelle nella fede». Il neo-eletto presidente Prabowo Subianto, che si insedierà alla guida dell’Indonesia in autunno, ha accusato i paesi occidentali di adottare doppi standard con ucraini e palestinesi, in un articolo apparso sul The Economist. «L’Occidente ha guidato la campagna globale di condanna (contro la guerra in Ucraina, ndr). Ha invitato il mondo a denunciare la Russia in nome dei diritti umani e del diritto internazionale. Oggi, gli stessi paesi stanno permettendo un altro sanguinoso conflitto, questa volta a Gaza».

Passaparola

In Indonesia esistono gruppi Whatsapp sempre in aggiornamento in cui vengono condivisi i nomi dei marchi da evitare, per esprimere solidarietà alla popolazione palestinese. «Avevo un adesivo di McDonald’s sulla mia auto che mi dava sconti quando usavo il drive-through, ma l’ho strappato quando è iniziata la guerra», ha detto ad Al Jazeera una persona che ha aderito alla campagna di boicottaggio. «Siccome non posso andare lì di persona, la cosa migliore è mostrare il mio sostegno non utilizzando prodotti affiliati a Israele».

Il cambio delle preferenze di consumo delle persone, musulmane e non, che si oppongono alla guerra nel Sud-est asiatico si è rivelato efficace in termini di impatto. «Le vendite sono in calo, i piani di espansione sono stati ridimensionati, i dipendenti sono stati danneggiati e nei negozi e non c’è alcun segno di cessazione del boicottaggio», ha detto al Financial Times una fonte vicina a General Atlantic, società di capitale privato che detiene una quota nell’operatore di Starbucks indonesiano Map Boga Adiperkasa.

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Quote in ritirata

General Atlantic stava provando a vendere il suo venti per cento di azioni a dicembre, quando ha dovuto ritirarsi perché le condizioni non erano più favorevoli. Lo stesso è accaduto a CVC Capital Partners, società di private equity europea, che intendeva vendere la sua partecipazione del 21 per cento in Qsr Brands, operatore malese di Kfc e Pizza Hut. Ma non sono stati coinvolti solo i fast-food: anche Unilever, Dove e Knorr hanno annunciato a febbraio una contrazione delle vendite dovuta a questa campagna.

Strategia di impatto

L’impatto delle proteste sul capitale delle multinazionali nel Sud-Est asiatico dà idea della forza dei boicottaggi, in una regione che ospita 250 milioni di musulmani. Non è bastato che Starbucks Indonesia dichiarasse, sul suo sito web, di non fornire alcun sostegno finanziario al governo o all’esercito israeliano. C’è inoltre chi ha definito i boicottaggi non necessari, perché la maggioranza dei dipendenti di questi brand è locale e gli Stati Uniti non sono coinvolti nelle quote di partecipazione degli operatori nazionali. Nonostante questo, molti si aspettano che finché il conflitto avrà luogo, il boicottaggio non si fermerà.

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