L’autunno scorso il mercato temeva lo scenario recessione negli Usa a causa del più rapido aumento dei tassi dagli anni ottanta, imposto per porre freno a un’inflazione tanto galoppante quanto inattesa. Una politica imitata dalle altre banche centrali, a cominciare dalla Bce. Arriva dicembre e la Fed, attraverso il suo Presidente, dichiara sostanzialmente che la traiettoria dell’inflazione è ormai chiaramente indirizzata verso l’obiettivo del 2 per cento mentre l’economia rimane resiliente: per il mercato sparisce il rischio recessione, sostituito dal “soft landing” (atterraggio morbido). Il mercato comincia così a scommettere su quando la Fed comincerà a tagliare i tassi e di quanto: alcuni lo prevedevano già per aprile, altri in giugno. E ogni giorno si calcolano le probabilità del numero dei tagli entro fine anno, analizzate con la stessa attenzione di quelle per le scommesse sulle partite di calcio.

Comincia il 2024 e i dati sulla crescita sorprendono per la forza della ripresa nonostante il perdurare di tassi elevati, soprattutto in termini reali. All’aspettativa di un «soft landing » si sostituisce quella di una crescita sopra trend trainata dai consumi privati: l’ultimo trimestre del 2023 si chiude infatti con i consumi in crescita del 3,3 per cento rispetto al trimestre precedente (dato annualizzato), e al 2,5 nel primo di quest’anno: dati molto poco “soft”. Ma l’inflazione, invece di continuare il suo trend discendente, a gennaio si stabilizzata allo stesso livello di novembre, 3,1 per cento, per poi risalire leggermente al 3,5 di marzo.

E il mercato cambia di nuovo aspettative: niente taglio dei tassi, forse a fine anno, e da più parti si paventa addirittura il rischio che la Fed sarà costretta a rialzarli. Rialzi che però vengono esclusi esplicitamente dal Governatore Powell nella conferenza stampa di mercoledì scorso, dove ribadisce però che i tassi rimarranno elevati per il tempo necessario a ricondurre la crescita dei prezzi all’obiettivo del 2 per cento: un’esplicita ammissione che sul fronte dell’inflazione non ci sono stati i progressi attesi. Il temuto aumento dei tassi è scongiurato, ma l’assenza di indicazioni su quando finirà il ciclo dei tassi alti e il timore che l’inflazione si possa assestare più al 3 per cento che al 2, ha generato uno scenario ancora diverso: la stagflazione. Più a lungo i tassi reali rimangono elevati, più è probabile che si abbia un periodo prolungato di crescita sotto trend (stagnazione), che con un’inflazione stabilmente vicina al 3 per cento significherebbe stagflazione.

Se guardiamo all’Eurozona, i cambiamenti nello scenario sono l’immagine speculare degli Usa, con la ripresa delle economie dell’area nel primo trimestre dopo la recessione dell’ultimo del 2023, e l’inflazione che ha rallentato la sua discesa, con la differenza che crescita e inflazione sono più contenute. Anche la Bce dichiara di voler mantenere i tassi elevati fino a quando sarà convinta che il 2 per cento sia raggiungibile e sostenibile: ma poiché siamo già al 2,4 è convinzione diffusa che a giugno la Bce taglierà i tassi per prima.

Se in quella data la Bce desse il via a un ciclo di ribassi, mentre prevale la convinzione che i tassi americani rimarranno a lungo elevati, il rischio però è che l’euro si indebolisca ulteriormente (-3 per cento rispetto al dollaro da inizio anno), alimentando l’inflazione importata, proprio in un momento in cui le tensioni geopolitiche potrebbero far impennare il prezzo del petrolio. Senza un cambio di direzione della Fed, diventa maggiormente problematico per la Bce avviare un ciclo di tagli, dopo la probabile prima riduzione di giugno.

Banche centrali e inflazione

Tutta questa enfasi su tempi e misure del taglio del costo del denaro offusca però i veri quesiti sullo scenario economico dei prossimi anni.

La prima osservazione è che il potere di indirizzo sull’economia delle banche centrali appare decisamente sopravvalutato e scarsa la comprensione del meccanismo con cui la politica monetaria trasmette i suoi effetti sull’economia reale e la dinamica di prezzi e salari. Nell’Eurozona l’inflazione è infatti scesa da un massimo del 10,6 per cento di ottobre 2022 all’attuale 2,4, mentre la disoccupazione è addirittura diminuita dal 6,7 al 6,5 per cento, un punto al di sotto del livello precedente al Covid.

E tutte le economie dell’Area sono in ripresa da inizio anno. Si è dunque drasticamente ridotta l’inflazione senza creare disoccupazione o danni all’economia, come invece prevederebbe il tradizionale modello delle banche centrali, dove i tassi frenano la domanda, comprimendo i margini delle imprese che, per difenderli, riducono l’impatto del costo del lavoro con conseguenze occupazionali. Niente di tutto questo è avvenuto, segno che l’inflazione è stata causata da un forte squilibrio tra offerta e domanda, conseguenza del Covid e dei rischi geopolitici; uno squilibrio che però si sta aggiustando autonomamente soprattutto dal lato dell’offerta.

Situazione analoga negli Usa, con l’inflazione scesa dal picco di 9,1 per cento al 3,5, con la disoccupazione salita leggermente dal 3,6 al 3,9, ma comunque vicino ai livelli pre-covid, storicamente bassi.

Gli alti tassi non sono stati pertanto la principale determinante del processo di disinflazione, anche perché dovrebbero aver avuto il maggior impatto tramite una stretta creditizia, mentre assistiamo a una compressione del premio per il rischio delle obbligazioni corporate a maggior rischio, segno che non ci si aspetta un significativo aumento dei default che tipicamente la accompagnano. Invece non si è tenuto in debita considerazione il ruolo della politica fiscale espansiva che sta sostenendo la crescita sia negli Usa sia in Europa.

È possibile dunque immaginare che la tempistica del primo taglio dei tassi delle banche centrali avrà un forte impatto di breve periodo sui mercati, ma sarà poco rilevante ai fini della comprensione del futuro che ci aspetta.

Per questo è molto più importante capire quale potrebbe essere il livello reale dei tassi di interesse a lungo termine, che è la variabile chiave per la sostenibilità delle finanze pubbliche, gli investimenti delle imprese, e le prospettive del settore delle costruzioni e immobiliare, con un peso molto rilevante nelle economie.

Declino

Le spese militari legate al mutato scenario geopolitico (molto simile a una nuova Guerra Fredda come ipotizzato su queste colonne); costo della transizione ambientale che il privato non è in grado di sostenere; demografia, che a causa della bassa natalità scarica su un numero sempre più ristretto di giovani lavoratori il costo del welfare, sono tutti fattori che comporteranno un aumento tendenziale dei disavanzi pubblici, con un aumento strutturale dei tassi a lungo termine necessario a collocare la maggior quantità di debito pubblico. Gli stessi fattori, unitamente ai maggiori costi di produzione dovuti alla de-globalizzazione e alla riduzione del commercio internazionale fanno propendere per un aumento strutturale del tasso di inflazione al di sopra del 2 per cento, di cui la globalizzazione, con lo spostamento della manifattura in Cina e in altri paesi a rapida crescita, era stata una delle principali cause. A sua volta una maggiore inflazione strutturale causa un duraturo aumento dei tassi a lungo termine.

La prima conclusione è che quand’anche le banche centrali taglieranno i loro tassi a breve, quelli a lunga, e in termini reali, saranno probabilmente destinati a rimanere più elevati che in passato.

Di quanto, è difficile da dirsi, anche se non sarei sorpreso che continuassero ad oscillare ai livelli attuali nonostante i tagli delle banche centrali. La seconda è che l’era del costo del denaro basso a lungo termine che aveva caratterizzato il ventennio pre-covid è destinato a finire e non tornerà per un bel po’.

Da cui la terza conclusione: soltanto le imprese più efficienti e in forte crescita, meno indebitate e nei settori a maggiore produttività, saranno capaci di prosperare in questo nuovo scenario dei tassi a lungo termine. Per le altre sarà un inevitabile declino. Per molte, una lotta per la sopravvivenza.

 

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