Guraiz e Sant Akher sono due delle principali arterie stradali dell’area di Tal as Sultan e ieri mattina erano completamente intasate. Le auto erano poche rispetto alla folla di persone a piedi che trascinavano le proprie cose altrove. Ancora una volta.

«Stiamo cercando di andarcene via da qui». La voce di Noor Azima è tremolante, perché qualche giorno fa una bomba è caduta non lontana dal suo palazzo, nel centro del campo di Tal as Sultan, nella zona ovest di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza

«Non ci importa di aspettare se davvero ci sarà la tregua, se continueranno a lanciare bombe o se l’esercito israeliano ci darà le tende che aveva promesso. Ce ne andiamo, se riusciamo».

Caos e bombe 

Il problema di queste ore è proprio riuscire a lasciare la zona di Rafah, perché c’è molto caos dopo i recenti bombardamenti. Inoltre, alcune aree sono interdette, perché a pochi km ci sono i veicoli militari israeliani, fermi in attesa di ricevere l’ordine di entrare ufficialmente a Rafah. La possibilità di un accordo definitivo tra Hamas e Israele non ha tranquillizzato nessuno, soprattutto perché, dicono, non è la prima volta che si arriva vicini a un’intesa e poi salta tutto.

«Nonostante le rassicurazioni, i bombardamenti qui non sono mai cessati», racconta il giornalista Hassan Isdodi, «e nel mirino ci sono essenzialmente dieci campi profughi. Qualche giorno fa hanno colpito alcune case nel campo di Al Jenina, nella zona est di Rafah e hanno ucciso cinque bambini. Ieri notte, invece», continua ancora Hassan, hanno colpito la zona fuori Rafah e poi ancora il campo di Nuseirat».

Accampati in riva al mare

Nelle ultime 48 ore circa 20mila persone hanno già lasciato Rafah, perché la maggior parte dei palestinesi non ha nessuna fiducia che l’accordo si faccia o che venga rispettato. Molti altri, invece, stanno organizzando le proprie cose per andar via nelle prossime ore. «Se non domani, tra qualche giorno i carrarmati invaderanno Rafah», è la voce che si rincorre tra le strade affollate del centro. La possibilità di morire, arrivati a questo punto della guerra, è diventata alta.

«Chissà come non siamo già morti», dice Noor, che è incinta di otto mesi. «è questione di probabilità, ormai». Anche se alcune migliaia di persone hanno lasciato Rafah, la popolazione in città è comunque superiore al milione e dopo che l’esercito ha iniziato metodicamente a bombardando le zone residenziali, molti si stanno riversando sulla spiaggia di Rafah.

«Alcune famiglie hanno deciso di montare tende sulla riva del mare», racconta Rana al Magawi, «tra loro c’è anche quella di mio cugino. Abitano nella zona di Salah Addin, che sembra diventato l’epicentro dei bombardamenti. E allora hanno pensato che almeno non moriranno sotto le macerie». Dopo qualche ora, gli accampamenti sulla battigia si sono moltiplicati, poi triplicati.

Non c’è ancora l’affollamento, ma l’idea è piaciuta a tante persone, soprattutto a coloro che, se anche ci sarà il cessate il fuoco, non sapranno dove tornare. La loro casa è stata sbriciolata. «Vedere l’orizzonte quando pensi di dover morire è rincuorante, in qualche modo».

Una parte della popolazione che per settimane ha occupato gli spazi liberi nella zona centrale di Rafah in queste ultime ore si sta riversando negli accampamenti al ridosso del confine egiziano. E infatti, è soprattutto in quella zona che c’è maggior caos e tensione, un mix molto difficile da gestire, raccontano. Manca l’acqua, mancano le fogne, il cibo scarseggia e le condizioni igieniche stanno peggiorando sempre di più. Ma si aspetta.

«L’Idf aveva promesso delle tende per spostare, almeno in parte, la popolazione sfollata dalle altre città della Striscia. E invece niente», spiega il giornalista Hassan. «Se l’accordo salterà anche questa volta e se davvero Israele progetta l’invasione imminente, il mondo deve sapere che non c’è alcun piano di evacuazione e nessuno strumento per evitare una carneficina». Il timore che l’invasione di terra possa diventare davvero molto complicata starebbe cominciando a serpeggiare persino tra le file dei soldati israeliani.

«Si dice che una delle brigate di paracadutisti riservisti sia stata allertata per una imminente operazione a Rafah ma che almeno una trentina di soldati si sia rifiutata», racconta Hassan Isdodi.

«Le nostre fonti dicono che avrebbero rifiutato l’ingaggio, perché non sarebbero in grado di portare a termine l’azione in sicurezza. Inoltre, ci hanno riferito che gli ufficiali non avrebbero costretto i riservisti a unirsi alla battaglia, ma che comunque i piani non cambieranno».

Paura per l’invasione 

L’operazione per invadere Rafah, infatti, sarebbe pronta. A testimoniarlo anche l’attività di queste ore sul corridoio di Netzarim, la strada di 6,5 km che taglia in due la Striscia dal kibbutz di Be’Eri fino al mar Mediterraneo. «All’altezza di Al Mughraqa, nella zona di Khan Yunis, ci sono almeno due brigate che sono in attesa di ordini e intanto sulla strada continuano ad arrivare armamenti», spiega Hassan Isdodi. «Credo che questo non sia un bel segnale per noi. Ci aspettiamo ulteriori bombardamenti al calar del sole». La notte mette paura.

A Gaza si aspetta la risposta di Hamas, con poche speranze. «Si crede che per noi le cose non miglioreranno e che il progetto di Israele di invadere Rafah sarà portato a compimento», spiega Ibrahim al Kasher, un giornalista palestinese con passaporto egiziano che lavora da anni proprio nella zona tra i due paesi. «D’altronde, i mezzi sono già tutti schierati, pronti ad entrare al confine». Il piano finale per l’operazione a Rafah, infatti, è stato approvato da Herzi Halevi, capo di stato maggiore delle forze di difesa israeliane.

Se molti stanno ritornando verso le aree nel centro di Gaza, a Khan Yunis o a Gaza city, molti altri stanno facendo pressione al confine con l’Egitto. Al Rafah Gate la folla è in continuo aumento e infatti il primo ministro egiziano Mustafa Madbouly ha chiesto alla delegazione di Hamas di accettare l’accordo. «Qualsiasi aggressione o attacco a Rafah sarà un disastro che porterà a un altro esodo di sfollati, in cerca di qualsiasi altro luogo sicuro», ha detto Madbouly, «e questo potrebbe significare ulteriore pressione sull’Egitto, perché in tantissimi vorranno attraversare il confine».

Al Rafah Gate si preparano al peggio. I controlli sono stati intensificati. «Anche se ci sarà un accordo», racconta ancora Ibrahim al Kasher, «un gran numero di palestinesi cercherà comunque di entrare in Egitto, perché non ha più nulla e vuole ricominciare da zero».

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