Una fiamma che brucia in cima a una torre petrolifera. Vista da lontano potrebbe sembrare innocua, ma il cosiddetto gas flaring produce danni rilevanti. Oltre alle emissioni di gas serra, causa malattie respiratorie e della pelle, tumori e nascite premature. Eppure, ogni anno si continuano a bruciare in atmosfera decine di miliardi di metri cubi di gas.

La nostra inchiesta svela per la prima volta le responsabilità individuali delle compagnie petrolifere. Intitolata Burning Skies, è stata realizzata da Domani insieme al consorzio di giornalismo investigativo ambientale Eif e alla rete Eic. Grazie ai dati satellitari forniti dall'Earth observation group del Payne institute for public policy e dalla ong Skytruth, integrati con ricerche open source, siamo riusciti a collegare migliaia di segnali di flaring con oltre 650 infrastrutture petrolifere distribuite in 18 paesi dell'Africa e del Medio Oriente. Abbiamo così stimato le emissioni prodotte dal 2012 al 2022 e le abbiamo attribuite alle società responsabili.

Le principali compagnie petrolifere dell'Europa occidentale – Bp, Eni, TotalEnergies, Shell - sono tra i 10 maggiori inquinatori in Africa e Medio Oriente: dipende da loro il 33,1 per cento delle emissioni.

Secondo l'ultimo rapporto della Banca mondiale, nel 2023 sono stati bruciati 148 miliardi di metri cubi di gas, pari a 381 milioni di tonnellate di Co2. La cifra equivale a più di quanto emette annualmente l'Italia, secondo l'European Emissions Database for Global Atmospheric Research).

A causa della mancanza di trasparenza da parte delle aziende del settore, finora il fenomeno è rimasto in gran parte nell'ombra. I dati pubblici quantificano solo le emissioni totali per paese, senza specificare da chi sono causate. Alcune compagnie, che hanno aderito alle iniziative della Banca mondiale e del Carbon disclosure project (Cdp), dichiarano i loro dati a livello globale, ma non forniscono dettagli sui paesi e sui giacimenti specifici. Il nostro lavoro punta proprio a colmare questo vuoto informativo: rivelare le responsabilità individuali, quantificarle, documentare gli effetti.

Nelle due regioni analizzate, Africa e Medio Oriente, tra il 2012 e il 2022 il gas flaring ha causato emissioni stimate in 1,37 miliardi di tonnellate di Co2 equivalente. Nella top ten ci sono cinque major europee: al secondo posto la britannica Bp, al terzo Eni, quinta e sesta le francesi TotalEnergies e Perenco, settima l'anglo-olandese Shell. L'americana ExxonMobil si piazza quarta.

Prima è la società statale algerina Sonatrach, che non ha risposto alle nostre domande. TotalEnergies ha invece dichiarato che l’utilizzo di «immagini satellitari», come nel caso delle nostre indagini, è «fortemente impreciso rispetto alle misurazioni in loco» e può portare a «sovrastime». TotalEnergies, tuttavia, non è stata in grado di fornire una propria stima delle emissioni per ciascuno dei siti gestiti. 

Le cause del gas flaring

Nei giacimenti, ma anche nelle infrastrutture che trasportano e trasformano gli idrocarburi, si verifica spesso un eccesso di gas naturale. A volte farlo uscire è necessario per evitare esplosioni. L'opzione più semplice consiste nel rilasciarlo in atmosfera.

È il venting, pratica dannosa dato che il metano ha una capacità di intrappolare calore (effetto serra) pari a 84 volte quella della Co2 su un arco di 20 anni. L'alternativa è il flaring, che consiste appunto nel bruciare il metano. È un'opzione migliore per il clima, ma che genera comunque enormi livelli di emissioni e un cocktail di composti volatili, come ossidi di azoto e particolato fine, dannosi per la salute umana. Soprattutto per quella di chi vive vicino alle fiamme.

Uno studio pubblicato sul Journal of Public Economics afferma che l'aumento delle patologie inizia a verificarsi a 90 km dai punti di combustione. Per verificare gli effetti del flaring abbiamo visitato sette Paesi, documentando come ci siano aree residenziali che sorgono a soli 10 chilometri dalle fiamme di giacimenti gestiti da compagnie come Bp, Eni, Shell o TotalEnergies.

Per Shell il problema non dipende dalle estrazioni, ma dalla popolazione stessa. L’azienda anglo olandese che in Nigeria il suo «diritto di passaggio» è stato «invaso» dalle comunità locali: «Molti dei nostri impianti di produzione di petrolio e gas non erano originariamente situati in aree densamente popolate», ha spiegato la compagnia, aggiungendo che «continua a lavorare con i governi statali e altre parti interessate per scoraggiare le comunità dall’invadere le aree operative». 

Credits: Source Material (Marcus Leroux)

Questione di soldi

Secondo la Banca mondiale, le emissioni derivate dalla combustione del gas in torcia sono aumentate del 7 per cento nel 2023 rispetto all'anno precedente, e non si è registrato alcun calo dal 2010. L'Agenzia internazionale per l'energia (Iea) avverte che il flaring globale del gas «non è sulla buona strada» per raggiungere l'obiettivo «Net Zero entro il 2050». C'è «urgenza» di agire, si legge nell'ultimo rapporto della Banca mondiale pubblicato a giugno 2024: «Questo pone l'onere della responsabilità sugli operatori».

Il paradosso è che bruciare gas in torcia significa sprecarlo, eppure a poca distanza dai giacimenti ci sono infatti villaggi che spesso soffrono per mancanza di elettricità. Possibile usare quel gas per creare energia? Sì, perché la tecnologia esiste e, ha calcolato la Banca mondiale, il volume di metano attualmente bruciato sarebbe sufficiente ad «alimentare l'intera Africa subsahariana».

Secondo Banca mondiale e Iea, per azzerare il flaring di routine (cioè quello non indispensabile) e ridurre al minimo le fuoriscite di metano servirebbero investimenti per 200 miliardi di dollari. La cifra rappresenta il 5 per cento del risultato operativo globale (Ebit) del settore dei combustibili fossili (4mila miliardi di dollari nel 2022).

Va detto che diverse compagnie hanno costruito infrastrutture per ridurre il flaring, ma in generale sono riluttanti all'idea di investire massicciamente. Bruciare il gas in torcia è infatti più economico che investire in nuovi impianti per riutilizzarlo. Inoltre, il recupero del metano associato può avere impatti negativi sulla produzione petrolifera del giacimento.

«Il flusso che arriva alla torcia è variabile, quindi non gestibile. Per produrre elettricità è necessario un flusso costante », spiega José Antonio García Fernández, professore di Ingegneria chimica alla Bilbao school of engineering.

Aggiunge Aidan Farrow, scienziato specializzato in inquinamento dell'aria, che lavora con l'unità scientifica di Greenpeace: «Quando abbiamo indagato sul flaring in Iraq con la Bbc, un ingegnere ci ha detto che, a causa di questi problemi di pressione, per recuperare più gas è necessario ridurre la produzione di petrolio. Ma le compagnie petrolifere hanno scelto di preservare la produzione».

La complicità dei governi

Nell'ultimo decennio le aziende hanno bruciato miliardi di metri cubi di gas in nazioni in cui il flaring è proibito o autorizzato per brevi periodi di tempo. In totale, secondo le nostre stime, tutto questo gas dato alle fiamme ha portato all'emissione di 451 milioni di tonnellate di Co2 equivalente. La compagnia europea che ha prodotto più gas flaring in questi paesi è stata Eni.

Il 13 giugno 2024 è entrato in vigore un nuovo regolamento dell'Unione europea sulle emissioni di metano nel settore energetico. Vieta sul territorio europeo, a partire dal 2025, sia il venting che il flaring (tranne che per motivi di sicurezza). Sulle importazioni, però, il testo è meno ambizioso. Sarà vietato vendere in Europa petrolio e gas importato con intensità di metano troppo elevata, ma il divieto entrerà in vigore solo nell'agosto 2030 e l'intensità massima sarà definita entro il 2029.

Ad eccezione dell'Ue, la lotta al flaring si basa in gran parte su iniziative volontarie. La mancanza di un'autorità regolatoria internazionale fa sì che ogni compagnia possa comunicare i dati a propria discrezione. Nella nostra indagine abbiamo osservato discrepanze notevoli tra i risultati a cui siamo giunti e le dichiarazioni di alcune major europee.

Per Bp, ad esempio, abbiamo stimato che nei soli 18 paesi analizzati le emissioni sono due volte superiori a quelle dichiarate dalla società in tutto il mondo. Bp ci ha assicurato che sta «lavorando per gestire e ridurre il flaring negli asset che gestiamo», ma non ha commentato la differenza numerica. 

Per Eni abbiamo stimato che i volumi di flaring sono 2,8 superiori a quelli che la multinazionale dichiara a livello mondiale. 

Quando abbiamo chiesto un commento su questa differenza, Eni ci ha risposto dopo dieci giorni spiegando di dover prima analizzare la lista degli asset da noi presi in considerazione. Abbiamo fornito la lista completa. Risposta finale di Eni: «I dati da voi condivisi sono frutto di stime derivate da rilievi satellitari.

Inoltre, analizzando la vostra lista abbiamo rilevato che parte degli asset sono non operati o fuori dal perimetro Eni». La società non ci ha comunicato quali sarebbero questi asset, né i dati delle emissioni di gas flaring divisi per paese.


Questa indagine fa parte della serie "Burning Skies: dietro le fiamme tossiche di Big Oil", sviluppata da EIF, un consorzio globale di giornalisti investigativi ambientali, in collaborazione con la rete europea EIC (di cui fa parte Domani) e i suoi partner Daraj, Source Material e Oxpeckers Investigative Environmental Journalism. Questa serie è stata sostenuta dal JournalismFund Europe. Analisi dei dati di Alexandre Brutelle e Leopold Salzenstein (EIF).

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