La famiglia Della Valle che controlla Tod’s col 64 per cento ha annunciato un’offerta pubblica totalitaria sul flottante al fine di ritirare la società dalla Borsa. La ragione del delisting è «rafforzare il posizionamento dei marchi nella parte alta del mercato della qualità e del lusso.

Obiettivo di medio e lungo periodo meno agevole mantenendo lo status di società quotata, con le limitazioni derivanti dalla necessità di ottenere risultati comunque soggetti a verifiche di breve periodo». Eufemismi che si leggono come la chiara ammissione di un vizio nella strategia aziendale, peraltro reso già evidente dalla caduta del risultato operativo, dal picco del 20 per cento nel 2011 a poco più del 3 del 2021, causa prima della perdita di valore del titolo in Borsa, crollato del 70 per cento rispetto al suo massimo di nove anni fa.
 

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Più della miopia del mercato (le «verifiche di breve periodo» a cui fa riferimento il comunicato per l’Opa), sarebbe stato giusto sottolinearne la lungimiranza. Una ragione più credibile per il delisting è la necessità di ristrutturare Tod’s, con i relativi costi, per poi cedere il controllo a qualche grande gruppo, oppure quotarla di nuovo, in entrambi i casi incassando un premio notevolmente superiore a quello pagato oggi al mercato con l’Opa. Un compratore futuro potrebbe essere Lvmh, che ha già fatto incetta di marchi italiani e che, non partecipando all’offerta, rimane azionista di Tod’s col 10 per cento, con la possibilità di contribuire al cambio di strategia.

Stesso prezzo dopo 22 anni

La parabola di Tod’s in Borsa, quotata nell’ottobre del 2000 a 40 euro, e ritirata dalla Borsa 22 anni dopo esattamente allo stesso prezzo, è emblematica di come troppo spesso gli imprenditori italiani utilizzino la quotazione a solo scopo di arbitraggio: si quotano le società nei periodi di euforia, quando la Borsa valuta i titoli a multipli storicamente elevati, per poi ritirarle quando i valori sono depressi – magari a causa di una gestione inefficace, come per Tod’s – , per poi ristrutturale, cederle, fonderle, scinderne alcune attività o anche ritornare in Borsa.

Una pratica legittima, tipica del private equity, e che frequentemente fornisce agli imprenditori le risorse per queste operazioni. Così i delisting abbondano a Piazza Affari: Atlantia, Autogrill, Falck Renewables (rinnovabili), Cerved (information technology), La Doria (alimentare), i principali delisting di quest’anno; Ima (macchinari), Astm (costruzioni e concessioni), Guala Closures (sistemi di chiusura) o Reno de Medici (carta) l’anno scorso.

Ovviamente non ci sono solo le uscite dalla Borsa, ma anche le nuove quotazioni di società di successo come, recentemente, Ariston (caldaie), Gvs (sistemi filtraggio), e Intercos (cosmetica) con capitalizzazioni superiori al miliardo. Tuttavia, secondo Consob, il numero di società italiane quotate al Mta, il mercato telematico per i titoli a maggiore capitalizzazione, a fine 2021 era di appena 218, per 590 miliardi di valore: 16 in meno di sette anni prima.

A prescindere dal numero delle società in Borsa, nella maggioranza dei casi la quotazione non è servita al suo scopo principe: facilitare la crescita beneficiando delle economie di scala indispensabili per competere perché, se le acquisizioni sono fatte pagando con i propri titoli, si riducono i costi del capitale  e, grazie al maggior valore della garanzia che può fornire una società quotata di grandi dimensioni, è più facile l’accesso al credito.

Eccezioni

Quotazione, scissioni, fusioni e acquisizioni hanno permesso alla Fiat a rischio di bancarotta di diventare Stellantis che oggi capitalizza 46 miliardi – a cui aggiungere Cnh, Iveco, Ferrari, una volta parte di Fiat; a Campari di arrivare ai 12 miliardi che la mettono in grado di competere con i grandi del settore come Diageo (88 miliardi) e Pernod Ricard (50 miliardi); e a Luxottica di diventare la EssilorLuxottica odierna (73 miliardi). Il problema è che sono eccezioni, non la regola.

Naturalmente si può crescere anche senza quotarsi, con i soli cash flow generati internamente, ma è molto più facile fare acquisizioni se il gruppo è quotato, perché gli azionisti della società oggetto dell’acquisizione possono ricevere titoli liquidi e che possono crescere di valore; perché la capacità di autofinanziamento è più esposta a shock e al ciclo economico; e perché si evita l’eccesso di indebitamento.

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La quotazione e la crescita dimensionale delle società italiane dovrebbe essere un problema di interesse generale perché un grande gruppo può competere meglio, ed essere quindi meno esposto ai rischi; e può investire di più nella ricerca e sviluppo, che significa maggiore produttività, stipendi mediamente più elevati, capacità di attirare talenti, oltre ad avere un’esternalità positiva sul settore e i fornitori. L’incapacità di crescita del nostro paese passa anche dal nanismo delle nostre imprese.

Piazza Affari ha ormai perso il ruolo di mercato di riferimento per l’allocazione del capitale di rischio e di meccanismo efficiente per la determinazione dei prezzi (che oggi dipende dalle altre Borse nel mondo), diventando così prevalentemente un mercato di investimenti in quote di minoranza, che guarda solo al dividendo. La responsabilità non è solo delle imprese italiane. Anche se quello di Borsa Italiana è ormai un tratto patologico, il fenomeno sta interessando un po’ tutti i mercati azionari che subiscono sempre più la concorrenza del private equity: capitale che non è quotato in un mercato organizzato.

Sempre più, le operazioni straordinarie avvengono al di fuori delle Borse, nel mercato dei capitali privati: un segno che la regolamentazione delle società quotate e degli intermediari finanziari è diventata così complessa e onerosa che il mercato si sta spostando altrove. Un caso di accanimento terapeutico che rischia di uccidere il malato.

Lo stato partecipa al declino

Anche lo stato partecipa al declino di Piazza Affari, della quale dovrebbe invece avere a cuore lo sviluppo. Lo stato, infatti, è diventato il principale azionista nella nostra Borsa, ma usa la quotazione esclusivamente per esercitare il controllo sulle partecipate con il minimo dei capitali necessari, essendo a corto di risorse per via dell’elevato debito pubblico; o, meglio, per esercitare il controllo sulla nomina dei vertici e influenzarne in questo modo la gestione quando si tratta di questioni con una ricaduta politica o di consenso, oltre a puntare ai dividendi. Di far crescere le società partecipate non se ne parla: significherebbe diluirsi, o investire capitali che non ha. In questo i governi, sia di destra sia di sinistra, hanno mostrato una straordinaria comunanza

Che cosa pensa, in proposito, Fratelli di Italia, new entry nelle stanze del potere e indicato dai sondaggi come favorito alla guida del nuovo governo? Oltre a chiedere al governo di ritardare la privatizzazione di Ita (per fare che cosa? Se si aspetta ancora un po’ si può solo liquidarla definitivamente), se ho capito bene vorrebbe la rete unica a controllo pubblico, che però già è nelle carte, ma non scissa da Tim e fusa con Open Fiber come si vorrebbe fare, ma tenuta dentro Tim. Se capisco bene, si vorrebbe che lo stato prendesse il controllo di tutta Tim. Ma con che soldi e soprattutto come la pensano gli azionisti privati di Tim che detengono il 90 percento del capitale? Purtroppo Fratelli di Italia non sembra rendersi conto che la società è ancora privata e quotata, e i diritti dei soci tutelati da norme e regolamenti. Ah! Annamo bbene, come diceva la Sora Lella. Avanti così e Piazza Affari, addio.

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