Pare che da bambina alla domanda «Come ti chiami?» rispondessi sempre in modo categorico «Io sono Giulia», come se fossi l’unica al mondo e il mio non fosse letteralmente il nome più diffuso in Italia tra le femmine della mia età. Non sono mai stata l’unica Giulia. In qualsiasi gruppo di cui abbia mai fatto parte – classi scolastiche, scuole di danza, gruppi estivi – eravamo sempre almeno in due. Io ero una Giulia. Ma mio padre sostiene che la mia personalità fosse già tutta lì, in quell’autodeterminazione perentoria, e mi piacerebbe tanto potergli dare ragione. Vorrei davvero percepirmi con la cazzimma che mi attribuisce lui – che in quanto genitore ha tutti i diritti di pensare che io sia la persona migliore del mondo –  ma la verità come al solito sta qualche chilometro a sud dalla visione che gli altri hanno di noi. Non sono una dura. Non sono speciale. E il più delle volte, quando mi presento a qualcuno, vorrei più che altro mettere il punto di domanda alla fine del nome. Non mi sentirete mai sbraitare il mio nome da un palco, né lo troverete nel titolo del mio libro, se mai ne scriverò uno.

Chi invece ha già fatto entrambe le cose è Giorgia Meloni, che ha appena pubblicato per Rizzoli la sua autobiografia Io sono Giorgia. Le mie radici, le mie idee, che ho deciso di leggere un po’ allarmata dalla risonanza del titolo con i miei aneddoti d’infanzia e un po’ incuriosita da quello che ancora prima di uscire era già un caso editoriale clamoroso. «Vuoi vedere che sono un po’ Giorgia pure io?» mi chiedevo mentre lo aprivo, pronta a immergermi nell’abisso, incerta su cosa ci avrei trovato.

Caos perfetto

Non avevo mai letto il libro di un politico italiano. In parte perché tendono a essere tra le persone meno interessanti sulla faccia della Terra, dall’altra perché la vita è troppo breve per leggere libri brutti. Non ho termini di paragone, quindi, e Io sono Giorgia non è certo un capolavoro, ma a modo suo mi sento di dire che è perfetto (e mentre lo scrivo la stampa di Karl Marx che mi guarda dal muro del soggiorno mormora «vergognati», mentre mio padre corre a cancellarmi dal testamento).

È perfetto perché l’autrice si è intelligentemente premurata di metterci dentro qualcosa per tutti i gusti, un buon sentimento non si nega a nessuno. C’è lei, bambina cicciona bullizzata; c’è lei, figlia abbandonata dal padre che si imbarca su un cargo battente bandiera liberiana; c’è lei, irriducibile Capricorno; c’è lei avvolta in una coperta di lana sulle rive del fiume Ngube, che sorseggia il tè alla menta con le donne del «fiero popolo» Saharawi; c’è lei madre dolente, madre lavoratrice, madre colpevole; c’è lei giovane donna in un mondo di uomini; c’è lei piccola piromane colposa; c’è lei insospettabile bionda in carriera, Elle Woods della Garbatella; ci sono Nanni Moretti, Gramsci, Verdone, Benigni, De Gregori (per automatismo indotto dai social, sono costretta a segnalare che tra i suoi riferimenti a occhio ci sono molti uomini, meno donne). C’è anche una quantità di citazioni dal Signore degli Anelli che è francamente inaccettabile, soprattutto per una persona che non è né un maschio adolescente né un Hobbit.

Insomma ci sono molte cose, e in questo caos uno rischia quasi di dimenticarsi di chi stiamo parlando. Ma la Meloni, presto o tardi, ce lo ricorda ogni volta. Proprio mentre sei lì che stai per dire «beh dai, mica male ‘sta Meloni», arriva sempre una secchiata d’acqua fredda: una tirade contro l’ideologia gender, un commento gratuito sul Ddl Zan, l’infamissima dittatura del politicamente corretto, Hillary Clinton infanticida, e l’onnipresente uso a sproposito dell’etichetta “radical chic” che da anni ormai tormenta Tom Wolfe nella tomba. È pur sempre una politica, mica una cantante (per quanto nell’introduzione dichiari che cantare è sempre stato il suo sogno segreto. Chissà cosa ci siamo persi, chissà cosa ci aspetta).

Nel complesso Io sono Giorgia sembra un po’ un colloquio di lavoro lungo 300 pagine. In quel rimarcare ossessivamente che lei è sempre sé stessa, senza compromessi, #nofilter, di autenticità non sembra essercene poi tanta (giustamente eh, i libri si fanno con la finzione, mica con la verità), proprio come quando le risorse umane ti chiedono quali sono i tuoi difetti e tu rispondi «Ho troppo senso del dovere».

Cose che non tornano

C’è qualcosa che non torna fin dall’inizio, dalla storia di sua madre che stava per abortire ma poi ha cambiato idea, si è bevuta un cappuccino il giorno dell’aborto e ha invalidato la procedura. Giorgia Meloni è nata nel 1977, l’aborto in Italia sarebbe diventato legale solo l’anno dopo. A meno che non sia la prima donna al mondo ad aumentarsi gli anni, invece di toglierseli, quella vicenda deve essere un po’ più complessa di come lei la racconta.

Ma per me il culmine di inverosimiglianza arriva a pagina 104, con le vacanze a Focene. Lasciatemi fare una piccola parentesi autobiografica. I miei nonni hanno una casa a Focene. Qui il mare tende al marrone – si chiama così perché c’è la foce del Tevere – e gli aerei di Fiumicino sgasano a pochi metri dalla spiaggia, così vicini che se sei abbastanza alto e allunghi un braccio puoi scroccare un volo per la Sardegna.

Ci ho passato tutte le estati della mia infanzia. All’epoca era solo una distesa di dune e catrame, siringhe e bidet abbandonati, cocci di vetro lisciati dalla marea che mi ostinavo a raccogliere e conservare come pietre preziose. Negli anni poi è stata parecchio ripulita. Le siringhe sono sparite come anche il catrame e i bidet e insieme a loro però se n’è andato anche quel minimo di fascino selvaggio da set di Mad Max che la rendevano repellente alle masse e molto tranquilla per noi. Di quel vecchio mondo resiste solo la casa abbandonata accanto alla nostra, una grande villa governata dai gatti randagi, che essendo piena di sabbia è probabilmente la lettiera più grande del mondo.

I miei nonni fecero costruire casa loro negli anni Sessanta, anni in cui forse era tutto più bello, anche Focene. La vicina di casa tedesca diceva che tramonti più spettacolari di quelli non li aveva mai visti, neanche in India (sarà stato il cherosene degli aerei a impregnare l’aria e ravvivare i colori del sole). Ma al netto dei tramonti e delle case di famiglia, che fanno sì che io sia molto affezionata a Focene, ho sempre pensato che solo un pazzo sceglierebbe consapevolmente di farsi il bagno nei tre chilometri di costa più sudici del litorale romano. Per questo quando Giorgia Meloni scrive che lei ha scelto Focene come meta di villeggiatura – perché non ci sono i paparazzi, dice, e comunque le piace molto – concludo che di una così proprio non ci si può fidare.

Essenza basica

Ho molti problemi con le posizioni di Giorgia Meloni, e la maggior parte trascende le preferenze in fatto di località balneari. Mentre leggevo il suo libro ho alzato gli occhi al cielo talmente tante volte che un altro po’ mi uscivano dalla nuca. Bisogna però riconoscerle il merito – a lei o al ghostwriter dallo stomaco peloso che ha scritto al posto suo – di essersi perfettamente sintonizzata con i nostri tempi e aver trovato un registro infallibile. A lei non servono pane e Nutella, felpacce e bomboloni come a quell’altro. Ha saputo crearsi l’identità intermedia, sofisticata ma di borgata, seria ma frivola, De André e commedie romantiche. Donna vera, del popolo, che ce l’ha fatta. In assenza di una traduzione esatta, mi sentirei di definirla un’impeccabile Basic Bitch. (Specifico subito che non ho niente contro le tipe basiche in generale, sono piena di amiche basiche, io stessa sono composta al 70 per cento d’acqua e al 30 per cento di citazioni di Notting Hill).

L’essenza basica di Giorgia Meloni si esprime in tutta la sua gloria nelle canzoni citate all’inizio di ogni capitolo. Si passa da Ed Sheeran a Ligabue, da Jovanotti ai Maroon 5, da Adele a Cat Stevens. Mi aspettavo anche «Siamo così, dolcemente complicate» e invece no, quella manca. Ma ripenso a Obama che intona Let’s stay together di Al Green e mi scende una lacrima. Sarò snob, sarò radical chic.

Comunque, per chiudere il cerchio, vorrei dire che a parte «Io sono Giulia» come massima manifestazione dell’ego ho trovato solo un’altra corrispondenza tra la mia esperienza e la sua. A un certo punto la Meloni racconta di un carnevale in cui la madre la mandò a scuola senza travestirla e la maestra le fece un costume improvvisato, una maschera di carta a forma di margherita. Un episodio che le ha «lasciato il segno» e che mi ha ricordato quella volta che all’asilo si fece una recita in cui eravamo tutti pinguini e per qualche motivo mia madre mi portò a scuola completamente vestita di verde (pinguino radioattivo? Unico albero del polo Sud? Chi lo sa). Tuttavia non mi sentirei di annoverarlo tra i traumi della mia vita, è a malapena un aneddoto.

È forse questa la differenza fra quelle come me – che non guideranno mai nessuno nella vita e a malapena guidano se stesse – e quelle come lei, che hanno capito che la gente la devi prendere per la pancia e per il cuore? «L’amore è la benzina del mondo» scrive nel capitolo conclusivo dedicato alla figlia. Mi viene solo da pensare che con la benzina puoi anche dar fuoco alle cose.

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