Tagli ai sussidi, politiche attive ferme alla voce “annunci” e un severo no all’aumento dei salari. Stoppando il dibattito sull’introduzione di una paga minima oraria. E addirittura il tentativo di reintrodurre le dimissioni in bianco, con un complicato meccanismo in esame alla Camera, che renderebbe ancora più debole la posizione dei lavoratori precari.

Il governo celebra la Festa del lavoro con un bilancio deficitario, a cominciare dal tema della sicurezza. Per gli amanti della politica-spettacolo, resta agli atti il piano-sequenza, molto cinematografico, che ha ritratto Giorgia Meloni a palazzo Chigi, il Primo maggio dello scorso anno.

Un piccolo capolavoro di comunicazione: la premier che arrivava nella sala del Consiglio dei ministri e decantava le iniziative del governo per il rilancio dell’occupazione. Dimostrando che la destra non riposa nemmeno nei giorni festivi. Ma dopo il video grondante di propaganda c’è stato il nulla. Si contano vari interventi penalizzanti soprattutto per le fasce più deboli.

La vera novità è la cancellazione tout court del reddito di cittadinanza (Rdc). In estate sono partiti i messaggini che hanno annunciato lo stop al sussidio. Un blitz con un intento: affondare la misura bandiera del Movimento 5 stelle.

Retorica anti-divanista

La ministra del Lavoro, Marina Elvira Calderone, ha quindi annunciato in pompa magna un cambio di paradigma con la volontà di favorire il ritorno all’occupazione dei percettori del Rdc, facendo leva sulla retorica anti-divanista.

Ma gli strumenti introdotti dal governo Meloni hanno riportato risultati deludenti. A raccontarlo sono le cifre che l’esecutivo stesso ha messo a disposizione in risposta alle interrogazioni presentate dal M5s. L’assegno di inclusione (Adi), previsto per supportare le famiglie più in difficoltà, non ha nemmeno coperto l’intera platea stimata dal governo.

A marzo (ultimo dato disponibile) il dato era bloccato all’80 per cento: su 737mila nuclei famigliari individuati dai tecnici del ministero del Lavoro, circa 150mila sono rimasti a secco. Ancora peggio vanno le politiche attive per il lavoro: il supporto formazione e lavoro (Sfl) – chiamato a formare i disoccupati con appositi corsi e con l’aggiunta di un contributo economico di 350 euro – era stato messo in conto per 250mila persone.

Cosa è accaduto? Di queste solo il 26 per cento è stato effettivamente convocato per un qualsiasi percorso. Non solo, i beneficiari del mini-sussidio, in media, hanno ricevuto 996 euro. Significa che i corsi hanno avuto una durata di tre mesi. Un tempo insufficiente a ricreare competenze da zero. Si torna così al punto di partenza: le politiche attive non sono state sviluppate e a pagare dazio sono state inevitabilmente le persone più in affanno, centinaia di migliaia di (ex) percettori del reddito di cittadinanza.

«Di fronte a questi numeri, non stupisce l’aumento della povertà assoluta registrato dall’Istat nel 2023», ha sottolineato Davide Aiello, deputato del M5s, firmatario delle interrogazioni.

Salario al minimo

Il capitolo salario minimo è ancora più significativo. Le opposizioni, compatte, avevano portato alla Camera il testo, subendo per tutta risposta la forzatura della destra. Il disegno di legge originario è stato affossato e inglobato in una legge delega, ribattezza «equa retribuzione». L’esito è stato lo stravolgimento dei contenuti del provvedimento. La destra meloniana, comunque, se la sta prendendo comoda: dopo cinque mesi è tutto fermo al Senato. Il provvedimento è in attesa di essere incardinato in commissione.

La sensazione è quella di una maggioranza intenzionata a spedire la riforma nel dimenticatoio. Dal Pd, a microfoni spenti, preferiscono che in fondo vada così, meglio niente che l’equa retribuzione. «Sarebbe una misura peggiorativa», fanno sapere ambienti parlamentari dem. L’obiettivo per le minoranze resta il rilancio dell’operazione-salario minimo.

Provando a spostare il dibattito sul contrasto al lavoro povero, quello mal retribuito. Il governo fa spallucce. Ai sindacati, nell’ultimo vertice a palazzo Chigi, non è stato garantito alcunché nemmeno sui rinnovi contrattuali.

Il decreto Coesione, esaminato nel Cdm di ieri, ha previsto una serie di sgravi contributivi. Alcuni raggiungono il massimo di 8mila euro per le assunzioni, con una serie di paletti e un lasso temporale ridotto. La stella polare resta l’una tantum, senza alcun intervento strutturale. Un esempio è il taglio del cuneo fiscale dovrà essere riconfermato per il 2025.

Dal governo fanno professione di ottimismo, ma le risorse sono tutte da reperire. Tanto che per il bonus tredicesime, che in realtà è diventato il bonus Capodanno, è stata necessaria una settimana di incontri e confronti al ministero dell’Economia.

Il risultato è la mancia da 100 euro da destinare solo a una platea ridotta (reddito inferiore a 28mila euro con coniuge e figlio a carico). Per il viceministro Maurizio Leo, comunque, la cifra arriverà a «un milione di famiglie». Una tesi che ha provocato la reazione ironica.

«Achille Lauro dava una scarpa prima della campagna elettorale, il governo Meloni nemmeno i lacci», dice Arturo Scotto, deputato del Pd. «Non c’è nulla di concreto, riproponendo una serie di esoneri contributi. Basta leggere il rapporto Inapp, un ente pubblico autonomo, per capire che gli sgravi non hanno funzionato», aggiunge l’esponente dem.

L’ultimo dossier pubblicato dall’Inapp racconta proprio come «sul totale delle imprese, un’esigua percentuale (4,5 per cento) sostiene che l’introduzione del programma di incentivazione è stata importante ai fini delle loro decisioni di assunzione». Per la serie, come scontentare tutti.

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