Le visite ai familiari sono bloccate da marzo, i contatti con il mondo esterno sono inesistenti e, soprattutto, sono state interrotte le attività che permettevano ai detenuti di ricostruirsi una vita. Ma la politica non fa niente
- «Quasi ogni contatto con l’esterno è inibito da quando è scoppiato il Covid, l’atmosfera è tetra, la peggiore che io abbia mai respirato lì dentro» ricostruisce il professor Edoardo Albinati.
- Il 17 novembre, alla notizia di due nuovi contagi, gli agenti della polizia penitenziaria hanno avuto il loro daffare per far tornare tutti in cella dopo l’ora d’aria. Poi il frastuono della più classica delle manifestazioni di protesta, il luogo comune cinematografico delle “battiture”.
- È il mondo separato di Rebibbia: quattro complessi, dirigenza al femminile, compresa la responsabile degli agenti di custodia della sezione maschile.
Plumbea. È la situazione dentro le alte mura di Rebibbia, carcere romano tra i più grandi d’Italia, quasi 1.800 ospiti. Plumbea perché, come dice il professor Edoardo Albinati che, oltre a scrivere romanzi da premio Strega, da 26 anni insegna italiano dentro quelle mura, «lo scoramento e l’appiattimento emotivo che viviamo tutti in questo periodo lì è moltiplicato dal fattore carcere». «Quasi ogni contatto con l’esterno è inibito da quando è scoppiato il Covid, l’atmosfera è tetra, la peggiore che io abbia mai respirato lì dentro», ricostruisce l’autore di La scuola cattolica. La tensione sale.
Il 17 novembre, alla notizia di due nuovi contagi, gli agenti della polizia penitenziaria hanno avuto il loro daffare per far tornare tutti in cella dopo l’ora d’aria. Poi il frastuono della più classica delle manifestazioni di protesta, il luogo comune cinematografico delle “battiture”, come si chiama in gergo il malcontento espresso sbattendo in modo ritmato oggetti di ferro contro le sbarre. Infine una semi devastazione della biblioteca interna del nuovo complesso.
Tutto il mondo fuori
Le visite dei familiari sono bloccate da marzo. Pochissimi pacchi penetrano le maglie strette dei controlli anti contagio. Non entrano più neanche gli educatori e gli insegnanti, le scuole sono chiuse. I volontari che gestiscono da anni progetti culturali e di formazione-lavoro restano fuori. La socialità è ridotta ai minimi termini, solo cella e televisione per la paura di essere infettati da guardie e sanitari.
Ecco alcuni detenuti chini sui tavoli sparsi nella cosiddetta “area verde”, che di verde non ha neppure un filo d’erba, un piazzale grigio come tutto il resto. Si danno il cambio ai telefonini forniti dalla direzione per scambiare poche parole con le famiglie. Venti minuti a settimana, questa è la dose. Niente visite, niente classi della scuola media inferiore e superiore, riaperte a fine settembre e subito richiuse il 18 novembre.
Anche le abituali lezioni offerte dalle tre università romane sono state interrotte dall’oggi al domani su sollecitazione dell’autorità sanitaria. La didattica a distanza, che pure era stata predisposta, non parte perché la direzione non ha autorizzato la connessione a internet, come invece hanno trovato il modo di fare nei penitenziari di Padova e Catanzaro. Solo qualche giovane volontario della associazione Antigone passa ogni tanto, mentre la segretaria nazionale Susanna Marietti, che qui sarebbe di casa, ammette di aver paura di contagiarsi varcando i cancelli.
Scioperi della fame
È il mondo separato di Rebibbia: quattro complessi, dirigenza al femminile, compresa la responsabile degli agenti di custodia della sezione maschile. Scrutando dallo spioncino dei racconti, le vite dentro Rebibbia, non un penitenziario modello ma neanche uno dei più sovraffollati, si capisce meglio che cos’è per i 54mila ospiti delle 192 prigioni italiane questo Natale speciale – di solitudini, angosce e limitazioni agli spostamenti per tutti.
Il giro di vite è arrivato proprio mentre partiva lo sciopero della fame a staffetta lanciato dalla presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini per denunciare le sempre più difficili condizioni di vita in carcere. Dal 10 novembre si sono uniti alla leader radicale 699 detenuti dislocati da Sulmona ad Avellino. A Roma la protesta non violenta non ha attecchito dentro le celle mentre fuori hanno aderito anche alcuni intellettuali come Luigi Manconi, Roberto Saviano e Sandro Veronesi.
A Rebibbia non ci sono stati focolai come invece in penitenziari fortemente sovraffollati quali Tolmezzo, Milano-Opera, Poggioreale e Secondigliano a Napoli. Ed era stata meno violenta che altrove la partecipazione alla rivolta penitenziaria di marzo contro le restrizioni alle visite del primo lockdown: solo 9 arresti. La situazione dal punto di vista della pandemia non desta allarme, almeno per il momento. Tra i 1.454 reclusi censiti nella casa circondariale principale di Rebibbia a fine settembre, finora sono stati trovati solo 5 positivi, tutti asintomatici, subito isolati dagli altri, oltre a un sintomatico lieve mandato ai domiciliari.
Nell’edificio separato del carcere femminile tra le 304 detenute quelle positive al Covid sono 17, quasi tutte asintomatiche. Due i positivi nella Terza Casa, la casa circondariale più piccola dedicata alla custodia attenuata, dove chi è in semilibertà torna a dormire al termine del permesso lavorativo esterno.
I nuovi ingressi
Qual è il modo più efficace di interrompere la catena dei contagi? Secondo il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, «la misura più importante tra quelle proposte con lo sciopero della fame è la sospensione degli ordini di esecuzione», che fermerebbe l’ingresso in carcere dei cosiddetti “nuovi giunti”, coloro che devono consegnarsi per scontare un residuo di pena. In caso di condanne lievi – fino a due o tre anni – il provvedimento di custodia in carcere slitterebbe fino alla fine della pandemia.
A Rebibbia tre “nuovi giunti” risultati positivi al Covid sono stati rispediti a casa in isolamento precauzionale almeno per quattordici giorni. Il giudice di sorveglianza del carcere femminile, Marco Patarnello, è d’accordo. Lo slittamento a fine pandemia sarebbe un modo per evitare il rischio che qualche asintomatico possa sfuggire alla procedura di quarantena iniziale. E liberare spazi che potrebbero rendersi improvvisamente necessari nell’eventualità di un focolaio.
Ma serve una legge. «In effetti sarebbe utile sospendere i nuovi ingressi per qualche mese», spiega Patarnello, «un provvedimento simile è stato già preso in passato per decongestionare le carceri. Ma questo differimento o moratoria dei titoli d’ingresso, naturalmente con un filtro ragionevole sulla consistenza e gravità della pena, può essere attuato solo attraverso una nuova iniziativa legislativa».
«Il Covid dentro le carceri – conferma Palma – preoccupa più in potenza che in atto, e quindi è più preoccupante per gli spazi mancanti in caso si verificassero cluster, piuttosto che dal punto di vista medico nella situazione attuale». Il garante delle carceri ripete da giorni che il rischio maggiore per la vivibilità e il clima interno è che si nutrano false speranze di indulto e amnistia, per i quali non c’è nessuna possibilità politica.
«Già sarebbe un notevole passo in avanti prolungare fino a fine emergenza i permessi premio e i provvedimenti di semi libertà. O consentire, come chiedono gli scioperanti della fame, la liberazione anticipata aumentando lo sconto pena per buona condotta dagli attuali 45 giorni a 75 giorni ogni sei mesi di carcerazione. Sarebbe un provvedimento limitato però si deve considerare che, esaminando la popolazione detenuta, la maggior parte non desta un vero allarme sociale».
Più disuguaglianze
Rebibbia conferma che il carcere, al pari del Covid, non livella ma anzi moltiplica le diseguaglianze socio-culturali. Dei 54mila carcerati italiani, oltre un quarto, circa 15mila, sono quelli che secondo Palma sono soggetti a una sorta di detenzione sociale, persone con problematiche che non dovrebbe gestire il carcere.
Persone arrestate per reati minori, per lo più legati alla tossicodipendenza, stranieri che non parlano bene l’italiano e non sanno come muoversi all’interno del sistema giudiziario e scrivere lettere al giudice di sorveglianza per avere benefici di legge, senza soldi e contatti per assicurarsi un ottimo avvocato. A Rebibbia femminile un terzo delle recluse sono straniere.
Raramente la detenzione obbedisce all’articolo 27 della Costituzione («Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato»). Ma con il Covid le opportunità di riscatto sono precluse, visto che vengono solo dal lavoro del volontariato e degli educatori come Albinati.
Emblematico a Rebibbia il caso di Luigi Preiti, ex muratore disoccupato di Rosarno (Rc) che una domenica di fine aprile del 2013 arriva a Roma per attentare alla vita di Enrico Letta, appena nominato capo del governo. I suoi spari in piazza Montecitorio colpiscono due carabinieri, uno dei quali in modo grave. Condannato a 16 anni, sconta la pena a Rebibbia dove incontra Giorgio Poidomani, manager di grandi aziende quotate in Borsa, poi amministratore delegato di quotidiani come l’Unità e il Fatto Quotidiano. «Ci sono storie bellissime dentro il carcere e questa è una delle più gratificanti per me», racconta Poidomani che a 86 anni, gestisce da volontario una redazione di detenuti che, fino a marzo scorso produceva il programma radiofonico settimanale “Radio Rebibbia”, ospitato nel palinsesto “Jail House Rock” da vari network indipendenti.
Reimpostare sé stessi
Poidomani, che ha partecipato allo sciopero della fame, selezionava anche libri-testimonianza scritti dai detenuti. Preiti ne ha scritto uno e nel frattempo si è diplomato e iscritto all’università. Ora, al termine di un percorso di autoanalisi e di riscatto culturale, attende la libertà condizionale. «Certo, non è da tutti ammettere di aver sbagliato e reimpostare la propria vita, la maggior parte dei detenuti è apatica e incattivita», ammette Poidomani, «ma è gratificante dare una mano, adesso mi manca molto il rapporto con i detenuti».
Per Poidomani, se la percentuale di chi riesce a salvarsi è così bassa, è soprattutto «colpa del giustizialismo diffuso e della codardia della politica che accontenta chi chiede solo di buttare via la chiave senza avere la forza e il coraggio di provvedimenti liberali come depenalizzare reati sciocchi». A Rebibbia le strade del riscatto sono chiuse dalla pandemia. Ma il carcere non è mai sigillato, come dimostra la sconfessione di chi credeva che sarebbe rimasto un luogo Covid free. E restituisce alla società, prima o poi, tutte le infezioni che dietro quella porta non si vogliono vedere.
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