Sempre abbiamo abortito e sempre abortiremo. È il grido – cantato, scritto, urlato – che invade ogni piazza quando si parla di tutelare il diritto all’aborto libero, sicuro, gratuito. Questo, ancora oggi, equivale anche alla difesa del diritto all’autodeterminazione delle donne e di ogni altra soggettività: scelgo io se diventare madre, non lo Stato e neanche la Chiesa. Mentre rappresentanti delle associazioni antiabortiste – o meglio: anti-scelta, perché di questo si tratta – continuano a pregare davanti agli ospedali per la fine dell’aborto nel mondo e quindi anche per la possibilità delle persone gestanti di autodeterminarsi, la Regione Emilia-Romagna ha deciso, attraverso una determina, che dal 1° gennaio 2025 si potrà accedere all’interruzione volontaria di gravidanza farmacologica con un solo accesso in consultorio o ospedale e successiva assistenza in telemedicina da casa.

Una decisione che arriva dopo una sperimentazione avviata nel 2021 e che cambia radicalmente il sistema di accesso all’IVG: stop a una non necessaria medicalizzazione con (si spera) una conseguente riduzione della finestra di tempo in cui si possono verificare le violenze psicologiche.

In un paese dove le associazioni antiabortiste chiedono il riconoscimento della soggettività giuridica dell’embrione, ci sono regioni dove il tasso di obiezione di coscienza impedisce l’attuazione di un una legge dello stato e in generale il governo pensa che il basso tasso di denatalità si possa invertire obbligando le donne a fare figli, abbiamo davvero tanto bisogno di prese di posizione politiche come quella della Regione Emilia-Romagna.

L’aborto farmacologico

Alzi la mano chi non ha mai pensato che la medicalizzazione dell’aborto, quando non si tratta di una situazione a rischio, fosse un sistema giudicante e punitivo verso le donne e le persone gestanti. In Italia, negli ultimi mesi del 2020, subito dopo la Riforma Speranza che estendeva la possibilità di aborto farmacologico fino alla nona settimana e con somministrazione nei consultori, gli aborti farmacologici sono passati dal 35% al 41% e oggi sono in media il 47% del totale, una percentuale che resta nettamente inferiore rispetto a quella di Francia e Inghilterra (70%) o dei paesi nordici, dove si sfiora il 90%.

La domanda è: perché? La risposta è semplice: solo tre regioni – Lazio, Toscana ed Emilia-Romagna – hanno accolto le nuove linee guida, mentre le altre le hanno rigettate, rifiutando così di semplificare l’accesso all’IVG a chi ne ha diritto. Fino ad ora, infatti, veniva richiesto alle gestanti di fare tre accessi (che fosse consultorio o ospedale): il primo per aprire la cartella e assumere la prima pillola (RU486 o misepristone), il secondo dopo 48 ore per assumere la seconda (prostaglandina) con osservazione in struttura di 3/4 ore e il terzo per verificare l’avvenuta espulsione, dopo circa 15 giorni.

Cosa cambia con la determina della Regione Emilia-Romagna? Che l’accesso sarà uno solo per aprire la cartella clinica, essere messe a conoscenza del percorso e dei metodi contraccettivi, firmare il consenso informato, concordare la consulenza in telemedicina e assumere la prima pillola, poi si potrà tornare a casa con un kit che contiene informazioni, seconda pillola, antidolorifici e test di gravidanza da fare dopo 14 giorni.

Tra i motivi che portano a scegliere l’IVG farmacologica ci sono, entrambi scelti dal 42% delle persone intervistate, quello di tenere nascosto l’aborto al partner o alla famiglia e la distanza dal presidio sanitario dove poter accedere (report “Aborto a ostacoli” 2024 di Medici dal Mondo). In estrema sintesi: una gestione privata e non pubblica di una scelta personale, molto meno invasiva, da ogni punto di vista possibile, per chi deve praticarla.

La libertà di scelta

Nel profilo di assistenza inserito nella determina della Regione Emilia-Romagna del 9 ottobre 2024, che si allinea con le raccomandazioni che l’OMS fa al nostro paese da diverso tempo, si spiega che «la libertà di scelta della donna le permette di poter scegliere le modalità e la sede dove eseguire l’IVG (IVG chirurgica in regime di Day Surgery e IVG farmacologica in regime ambulatoriale e a domicilio). È importante che siano offerte in ogni distretto almeno l’IVG farmacologica ambulatoriale e domiciliare, anche tenendo conto della conformazione del territorio e del principio di prossimità a cui si ispira il sistema integrato e multidimensionale dei servizi socio-sanitari, prevedendo, quindi, una riorganizzazione della rete dei servizi che offrono l’IVG farmacologica» e visto che non esiste libertà di scelta senza un’informazione corretta e accessibile, «si raccomanda l’aggiornamento dei portali delle informazioni basilari circa il percorso assistenziale, nonché il potenziamento da parte delle Aziende sanitarie dell’indicizzazione digitale delle parole chiave (aborto, IVG, ecc.) e dei contatti a cui rivolgersi anche in forma multilingue per una più immediata accessibilità alle informazioni sui servizi consultoriali e della rete sanitaria da parte delle ragazze e delle donne interessate, stante l’impegno della Regione a facilitarne il coordinamento. L’IVG farmacologica può essere erogata fino al 63° giorno di amenorrea in regime ambulatoriale ospedaliero o consultoriale (day service) e a domicilio».

C’è ancora un po’ di lavoro da fare sul linguaggio di genere, iniziando a parlare di donne e altre soggettività o persone gestanti invece che solo di donne, escludendo così tutta la comunità lgbtqi+, ma anche se la strada è lunga questo non deve impedire di gioire dei risultati raggiunti durante il percorso.

La violenza sulle donne passa (anche) da qua

Come dice la campagna My Voice My Choice, limitare l’accesso all’aborto sicuro è violenza. Proviamo a scendere nel dettaglio: violenza è entrare in un consultorio o ospedale e trovare persone che fanno parte di associazioni antiabortiste che danno informazioni faziose o parziali; percorrere la strada che ti porta in ospedale e trovare persone che pregano contro l’aborto mostrando gigantografie di feti; camminare per la città e vedere affissi negli spazi pubblici manifesti che chiedono di non uccidere i feti, chiamandoli bambini; incontrare personale obiettore che si rifiuta di fornire i servizi garantiti per legge e ritardare l’aborto o fare centinaia di chilometri per vedersi riconoscere un diritto; sentirsi colpevolizzate per la propria scelta; la pratica dell’attesa obbligatoria che ti rimanda di sette giorni per pensarci meglio quando tu hai già scelto; scoprire il tuo nome in un cimitero dei feti; avere la possibilità di fare una IVG farmacologica a casa ma non poterla fare perché la tua regione non la sostiene per motivi ideologici e non sanitari; sentire il Papa dare del sicario ai medici che rispettano la legge.

EPA

Adesso che è arrivato dicembre e la violenza sulle donne tonerà mainstream per un mese, ricordiamoci che non esiste solo quella che uccide e lascia lividi ma anche quella psicologica, mano visibile ma ugualmente letale. Su molte di queste azioni le amministrazioni potrebbero incidere in modo positivo, accogliendo, per esempio, le richieste delle associazioni e impedire le affissioni delle campagne anti-abortiste e vietare le manifestazioni di qualsiasi genere nei pressi dei luoghi sensibili, come per esempio le preghiere antiabortiste davanti agli ospedali. Se la libertà di opinione si trasforma in un esercizio di violenza verso alcune categorie di esseri umani diventa necessario tracciare dei confini e, farlo, è una responsabilità della politica.

La rete transfemminista ci salverà

Sono tante le persone – donne, uomini, altre soggettività – che in questi anni, mesi, settimane sono scese nelle piazze, insieme, per difendere la legge 194 e puntare il dito contro i continui attacchi che ne minano l’applicabilità. Nella mia esperienza ho incontrato donne che erano in piazza nel 1978 quando la legge 194 è stata approvata e che oggi continuano ad alzare voce e cartelli per difenderla: 46 anni di lotta e ancora non possiamo darla per scontata. «Siamo ancora qua», dicono scherzando e abbracciando le compagne, ma il sorriso è amaro e la rabbia tanta. Nelle Marche, Lombardia e Umbria ci sono state manifestazioni di protesta contro un sistema che, numeri alla mano, quando non impedisce l’accesso all’aborto, lo rende molto complicato.

A Perugia, denuncia la rete pro-choice locale, fino al 2024 nell’ospedale universitario non si formavano gli studenti di medicina sull’aborto farmacologico mentre nelle Marche, su 66 consultori, solo 25 rilasciano la certificazione IVG e 26 offrono il percorso IVG territorio-ospedale (report “Aborto a ostacoli” 2024 di Medici dal Mondo). Quando il Governo dice «non tocchiamo la legge 194» lo fa perché sa benissimo che non c’è ragione di abolirla o modificarla per renderla inapplicabile, basta solo presentare proposte di legge che, mascherate da sostegno alla natalità, in realtà favoriscono una cultura che va in una sola direzione: rendere difficile l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, controllare i corpi delle donne e rispedirci in un medioevo culturale. A sbarrargli la strada, però, c’è una marea transfemminista, colorata, arrabbiata, forte e determinata. Sempre abbiamo abortito e sempre abortiremo. La differenza è nel poterlo fare in modo legale, sicuro, libero e gratuito. E su questo, non faremo un passo indietro.

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