Pubblichiamo la lettera che ci ha inviato un nostro lettore figlio di un artigiano che si occupa di produrre formaggio
Scrivo a seguito della polemica relativa allo sport del Parmigiano Reggiano e di Renatino, reo di lavorare tutto l’anno e di non aver visto Parigi e il mare. Sono figlio – e pure nipote, anche se non ho mai conosciuto mio nonno – di un casaro.
Come tanti casari, mio padre è artigiano, in appalto per conto di una cooperativa – come funziona qui da noi, a Parma, nella stragrande maggioranza dei casi. I casari, con l’aiuto dei loro dipendenti, devono: garantire la raccolta del latte, produrre il formaggio e accudire il prodotto fino alla vendita.
È un lavoro duro e impegnativo, e non potrebbe essere altrimenti. Quando si ha a che fare con l’agricoltura – il latte, le mucche, il formaggio, i campi – non c’è alternativa. I tempi non sono quelli degli uomini, ma quelli della natura. Semplicemente: le mucche vanno munte tutti i giorni e il loro latte non si può conservare, va lavorato fresco.
Quindi ci si sveglia presto e si rientra tardi, tutti i giorni. Come figlio, ho pagato il mio “prezzo”: alle partite, la domenica, venivo accompagnato dai genitori degli amici. Al mare si andava con la mamma e mio padre ci raggiungeva, quando riusciva, nel weekend. Weekend che passava dormendo, comprensibilmente.
Non mi lamento: la mia vita è stata, finora, piena. I miei genitori mi hanno permesso di studiare, di viaggiare, di trovare la mia strada, un’altra strada, più adatta a me. E gliene sarò eternamente grato. Dopo questa premessa, torno allo spot.
Non è la prima volta che il Consorzio sbaglia pubblicità, ma c’è da dire che a questo giro hanno sbagliato di molto. Sullo spot è già stato detto tutto e in linea di massima il mio pensiero su quel prodotto pubblicitario è che è pessimo e che andrebbe ritirato al più presto. Per cui vorrei concentrarmi sulle reazioni.
Leggo, infatti, parole come “schiavitù” e “alienazione”, e mi rendo conto che nessuno di quelli che commentano conoscono l’argomento. È quindi necessaria una precisazione. Parlando delle realtà che ho potuto conoscere – quella di mio padre e di alcuni suoi colleghi – vi posso garantire che gli operai non solo conoscono l’impegno richiesto, ma sono pagati con regolare Ccnl alimentare, hanno i loro giorni di riposo e le loro ferie. Com’è giusto che sia.
Normalmente è gente che già conosce il mestiere, guadagna bene oppure no, evidentemente ha altre priorità rispetto al mare e a Parigi. Per cui parlare di schiavitù è sbagliato. Ho accompagnato numerose persone in visita al caseificio: amici dell’università, amici dell’Erasmus, parenti, colleghi.
Molti di loro sono membri di quella bolla che ora twitta indignata straparlando di sfruttamento. Ecco, non ricordo nemmeno quante volte mi sono sentito dire, alla fine di questi tour, da amici non certo sospettabili di simpatie liberiste: «Wow, ma perché non fai anche tu questo mestiere?».
La risposta ve l’ha data Renatino, ma confermo: non è un lavoro, è una scelta di vita. Ma questo è il prezzo da pagare perché il prodotto rimanga artigianale. E questo vale per una marea di prodotti (Dop, Igp eccetera) che il mondo ci invidia.
È il prezzo dell’agricoltura, non quella intensiva e capitalista, ma quella di una volta, che produce poco e punta alla qualità. L’alternativa è l’industrializzazione.
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