- La vittoria democratica ai ballottaggi per il Senato in Georgia consente a Joe Biden di disporre, sulla carta, di una maggioranza omogenea al Congresso, e di perseguire un’agenda di politica fiscale espansiva.
- I mercati hanno reagito alla probabile concretizzazione di questo scenario reflazionistico alzando i rendimenti sul debito statunitense e deprimendo il dollaro, come da attese.
- Ma i Democratici non sono un monolite: le distinzioni tra sinistra socialista e centri tradizionali emergeranno subito dopo l’insediamento, rendendo meno scontato e lineare il percorso di stimolo fiscale immaginato dai mercati.
A marzo, durante la tempesta sui mercati causata dalla prima ondata Covid, il rendimento del titolo di stato decennale statunitense ha toccato il minimo di 0,4 per cento. Da quel momento, in conseguenza sia dell’azione senza precedenti della banca centrale americana, la Federal Reserve, che dell’enorme stimolo fiscale (per complessivi 2.200 miliardi di dollari) approvato dal Congresso, è iniziata una lenta risalita, che ha preso velocità dopo l’elezione di Joe Biden a novembre ma soprattutto con l’esito dei ballottaggi per i due seggi senatoriali della Georgia. Quest’ultimo evento appare quello decisivo a concretizzare l’ipotesi di scenario elaborata dagli investitori.
La vittoria dei democratici in Georgia porrebbe il Senato in condizioni di parità numerica tra i due partiti, con 50 seggi ciascuno. Tuttavia, poiché il voto del vicepresidente vale doppio in caso di pareggio, Kamala Harris risulterebbe decisiva per permettere a Biden di far avanzare la sua agenda di politica economica, si argomenta.
Se i Repubblicani mantenessero il controllo del Senato, ciò equivarrebbe a un blocco sostanziale alle proposte di legge provenienti dalla Camera, incluse quelle ispirate dalla Casa Bianca.
Storicamente, i mercati hanno sempre apprezzato situazioni in cui i colori di Casa Bianca e Congresso sono differenti.
Questa condizione, è la vulgata, serve a limitare le pulsioni di spesa dei Democratici, grazie alla presunta morigeratezza fiscale Repubblicana. Salvo poi accorgersi che le amministrazioni repubblicane, da ormai molto tempo, sono quelle che tendono a fare più deficit e quelle democratiche a ridurlo, ma tant’è.
Basti pensare alla cosiddetta riforma fiscale di Donald Trump, che non ha innalzato il potenziale di crescita dell’economia ma è riuscita a creare il maggior deficit strutturale in tempo di pace, oltre a un boom di riacquisto di azioni proprie “compensato” da mini erogazioni da mille o duemila dollari ai dipendenti delle grandi aziende globali, che è riuscito a suscitare ammirazione e inviti all’emulazione da parte di alcuni confusi osservatori di casa nostra.
Ma torniamo al punto: al crescere delle probabilità di doppia vittoria democratica ai ballottaggi della Georgia, i mercati hanno spinto il rendimento del Treasury decennale sopra la presunta soglia psicologica dell’1 per cento, e depresso ulteriormente il dollaro, il cui indebolimento corre in parallelo all’ipotesi di Grande Reflazione per mano di Casa Bianca e Congresso dello stesso colore, il blu.
Perché accade ciò?
Perché si ritiene che l’azione espansiva coordinata di politica fiscale e monetaria, con la Fed che accomoda il collocamento di ulteriori stock di debito pubblico tenendo comunque bassi i rendimenti nominali, induca il recupero di aspettative inflazionistiche e quindi tassi reali in calo, una potente leva di stimolo economico e che tende a deprezzare il cambio.
Andrà davvero così? Il centrista Biden si troverà a dover equilibrare spinte opposte, all’interno del suo partito. Da un lato, la sinistra socialista di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, che ha già avuto modo di criticare alcune nomine del presidente eletto e che spinge per un uso massivo del deficit, accarezzando teorie eterodosse come la Modern Monetary Theory, per la quale un governo non può restare a corto di moneta, perché la stampa, e di conseguenza il deficit non è un problema; dall’altro, i Democratici centristi, che non intendono fare esperimenti fiscali e monetari così arditi.
Non sarebbe una novità, nel panorama statunitense: si pensi allo stimolo di Barack Obama, durante la crisi finanziaria successiva al collasso di Lehman Brothers e del credito strutturato.
In quella circostanza, la presidenza si trovò di fronte non solo il tradizionale conservatorismo fiscale repubblicano, che dà il meglio di sé quando non c’è un Repubblicano alla Casa Bianca, ma anche i cosiddetti Blue Dogs, una pattuglia di Democratici molto parsimoniosi su spesa pubblica e deficit. Il risultato fu un pacchetto espansivo in complesso contenuto e con maggior spesa largamente reversibile, passata l’emergenza.
I mercati, quindi, come sempre, dipingono scenari con grandi pennellate e senza badare troppo ai dettagli, che tuttavia sono quelli che determinano il quadro prodotto.
Lo scenario reflazionistico di poderoso stimolo fiscale americano resta quello su cui poggia il consenso della stragrande maggioranza degli investitori. Ma la sua implementazione deve essere vista come meno lineare e monolitica rispetto alle attese.
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