- Il diritto all’istruzione è tra quelli più sacrificati dall’inizio della pandemia. Alcuni presidenti di regione e sindaci vietano la didattica in presenza, in contrasto con le disposizioni dall’ultimo Dpcm. I Tar adottano decisioni discordanti. Il caos-scuola prosegue.
- Una norma del nuovo Dpcm sancisce la didattica in presenza alle superiori per il 50 per cento della popolazione studentesca e attribuisce ai prefett il compito di coordinare i servizi di trasporti con lo sfasamento delle entrate a scuola. Il problema resta la carenza di trasporti adeguati.
- Le risorse per i trasporti non mancano, anche la legge di Bilancio prevede nuovi stanziamenti. Le Regioni continuano a chiedere una modulazione della domanda, senza prevedere adeguati interventi sull’offerta.
L’Italia si appresta a diventare un’area di colore uniforme, tendente al giallo. Sarà un Natale quasi normale nei giorni precedenti le festività, per consentire alle persone di fare acquisti, quindi sostenere l’economia, anche se si creano assembramenti.
Sarà un Natale molto diverso nei giorni delle feste, con una stretta tesa a evitare spostamenti nonché riunioni con amici e parenti, per non creare assembramenti. La “ratio” è chiara. Continua a sfuggire, invece, la logica delle scelte sulla scuola.
Il diritto all’istruzione è tra quelli più sacrificati dall’inizio della pandemia. Quando il presidente del Consiglio ha optato per il sistema “oggettivo” e “automatico” della suddivisione delle Regioni in zone di rischio, per quelle a rischio inferiore (gialle) e medio (arancione) ha previsto la didattica a distanza nelle scuole superiori - ferma restando la presenza nelle altre - e non perché vi fossero evidenze di maggiori contagi.
Il problema erano (e sono) i trasporti: mezzi pubblici affollati, nonostante la ministra dei Trasporti Paola De Micheli insistesse a dire che i criteri di riempimento garantissero protezione dalle infezioni. Esattamente come i salvifici banchi a rotelle vantati dalla ministra Azzolina. Ma a che punto siamo oggi con la scuola?
Il caos delle chiusure
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte aveva detto che il passaggio da una zona all’altra avrebbe comportato l’automatica applicazione delle misure di contenimento definite nel Dpcm del 3 novembre, proporzionate alla gravità della situazione. In concreto così non è, e la scuola ne rappresenta la prova.
Il 29 novembre alcune Regioni - Piemonte, Lombardia e Calabria - sono passate dalla fascia più critica (rossa) a quella inferiore (arancione). Sono tornati a scuola gli studenti di Lombardia e Calabria (ove, qualche giorno prima, il Tar aveva sospeso l’ordinanza che vietava la didattica in presenza, ma una nuova ordinanza l’aveva comunque sospesa fino al 28 novembre). Non così, invece, gli alunni del Piemonte, ove il rientro è stato bloccato dal presidente Cirio perché prima «devono essere messi a posto i trasporti». Intanto, l’ordinanza piemontese è stata impugnata.
In zona arancione è pure la Campania, ma il presidente Vincenzo De Luca ha prorogato la chiusura delle medie fino al 7 dicembre; e la Puglia, ove il presidente Michele Emiliano ha lasciato alle famiglie la libertà di scelta sulla didattica a distanza, dopo che il Tar di Bari aveva sospeso la sua ordinanza di chiusura (mentre il Tar di Lecce l’aveva confermata). Quindi, a parità di zone di rischio, la disomogeneità circa la scuola (e non solo) è di tutta evidenza. Con buona pace dell’oggettività del sistema vantato da Conte.
Di chi è la colpa del caos-scuola
La responsabilità del quadro variegato in materia di istruzione è dei presidenti di Regione, autori di ordinanze che dispongono misure diverse da quelle previste dal Dpcm. Ma – com’è noto - è lo stesso governo ad aver attribuito loro questo potere, mediante la norma di un decreto-legge emanato lo scorso maggio, poi modificato in ottobre.
Anche alcuni sindaci hanno chiuso le scuole con ordinanze, e ne hanno i poteri poiché nel mese di luglio il governo ha eliminato una norma che precludeva loro l’adozione di ordinanze «in contrasto con le misure statali».
Pure quando tale norma preclusiva era vigente, i sindaci adottavano decisioni discordanti da quelle dei Dpcm, senza che il governo se ne preoccupasse.
In alcuni casi i Tar hanno riscontrato l’assenza di presupposti sostanziali delle ordinanze di chiusura delle scuole, a seguito di ricorsi dei genitori. L’esecutivo, invece, non ha reputato di intervenire, nonostante le dichiarazioni sull’importanza dell’istruzione.
Il nodo trasporti
Finora per la scuola ha regnato il caos. Nei giorni scorsi sono state avanzate proposte varie e talora stravaganti: dalla frequenza anche la domenica al rientro prima di Natale a un ponte lungo fino al 14 gennaio. Salvo poi richiudere tutto comunque, se i contagi dovessero aumentare.
Il Dpcm del 3 dicembre prevede una soluzione che suscita ancora più perplessità di quelle precedenti: dal 7 gennaio 2021, al 50 per cento della «popolazione studentesca» delle superiori va garantita l’attività didattica in presenza.
SPremesso che servirà capire qual è la base di riferimento di tale percentuale, da un lato, la responsabilità delle decisioni circa gli studenti da ammettere a scuola sembra gravare esclusivamente sui presidi; dall’altro lato, proseguirà la situazione di incertezza per alunni, insegnanti e famiglie. Il problema resta quello dei trasporti.
Il nuovo Dpcm attribuisce compiti di coordinamento dei trasporti pubblici locali (Tpl) ai prefetti: questi ultimi, d’intesa con una pletora di soggetti (tra i quali sindaci, aziende di Tpl, esponenti dei ministeri dell’istruzione e dei trasporti, assessore regionale ai trasporti, protezione civile regionale), dovrebbero definire il raccordo tra gli orari delle attività didattiche e quelli dei servizi di trasporto pubblico locale, in funzione della disponibilità di mezzi utilizzabili.
Se il coordinamento non dovesse funzionare, potrà intervenire il Presidente della Regione con propria ordinanza (art. 32, l. 833/78).
Il governo forse ha dimenticato che il potere di «armonizzare l'espletamento dei servizi con le esigenze complessive e generali degli utenti» competerebbe al sindaco (art. 50, c. 7, Testo Unico Enti Locali).
I soldi ci sono
Al di là del coordinamento, restano le attuali carenze dei servizi di trasporto, in relazione ai fabbisogni determinati dalla necessità di distanziamento. Non mancano le risorse: la legge di Bilancio destinerà ad essi 200 milioni di euro per le Regioni e 150 per i Comuni. Nei mesi scorsi il Governo aveva già stanziato 300 milioni per le Regioni (oltre a 150 milioni ai Comuni per gli scuolabus); e 900 milioni con il decreto Rilancio e il decreto Agosto, per compensare mancati introiti dei biglietti.
I servizi di trasporto saranno potenziati in misura proporzionale ai fondi messi in campo? In audizione alla Camera, le Regioni hanno lamentato il crollo degli introiti tariffari - minore utenza, costi di sanificazioni ecc. - e la necessità di intervenire sulla domanda di trasporto, per ridurre i sovraffollamenti mediante differenziazione oraria delle scuole, didattica a distanza, prolungamento dello smart working.
E l’offerta di trasporti? L’impressione è che gli interventi non saranno di livello pari alle risorse. Le regioni hanno rilevato - tra le altre cose - la difficoltà di reperire sul mercato mezzi e personale non Tpl, anche per il rischio di contenzioso con le aziende affidatarie degli attuali servizi. Ma allora quale sarà l’efficacia dei fondi stanziati, se l’offerta non verrà potenziata come servirebbe, con la messa a gara di nuovi servizi di trasporto, per decongestionare quelli ordinari?
Il rischio è che le risorse finiscano inghiottite da gestioni per lo più fallimentari, senza un miglioramento per l’utenza adeguato all’investimento. Eppure, sarebbe l’occasione per scelte finalmente efficienti. La pandemia prima o poi passa: lo spreco di fondi pubblici, invece, resta.
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