L’uso di un linguaggio elaborato non nasce dal desiderio di rispettare la dignità del lavoro, ma da un bisogno di sentirsi moralmente superiori. Etichettarli zuccherosamente lavori utili rischia di confondere il problema: non è la natura del lavoro a essere sbagliata, ma il modo in cui valorizziamo il lavoro
Oggi mi occupo delle persone che pagano una donna delle pulizie, ma che non vogliono usare l’espressione “donna delle pulizie”. Questo nonostante la lavoratrice che pagano sia quasi sempre una donna e faccia le pulizie al posto loro, nel loro appartamento.
Però niente, queste persone usano altre definizioni, diranno per esempio “la persona che mi aiuta in casa” o simili frasi elaborate, o etichette che suggeriscano una collaborazione, sentendosi così più buoni, come se pulissero i pavimenti in compagnia di questa persona che chiacchiera mentre porge loro uno straccio. Fra un po’ per far mostra di non dire “donna delle pulizie” diranno “la persona che mi sostiene nel delicato compito di far sì che i bagni esprimano la migliore versione di loro stessi”.
Negli anni, il linguaggio utilizzato per descrivere certi lavori ha subito trasformazioni. Un’evoluzione apparentemente motivata da un desiderio di rispetto e inclusione, ma che in realtà cela dinamiche sociali e psicologiche più complicate, e rivela i dilemmi della nostra storia economica.
Il termine “donna delle pulizie” forse non piace perché evoca immagini chiarissime: una persona, quasi sempre una donna (ma ci sono anche gli uomini, in tal caso il termine semplice sarebbe “uomo delle pulizie”) che si dedica a un lavoro considerato dalla società umile, necessario, ma marginale. Oggi il lavoro manuale – e quello domestico in particolare – è svalutato, benché sia indispensabile.
Evitare di chiamare questa figura per quello che è sembra riflettere il desiderio di non guardare in faccia la realtà del “servizio”. La donna (uomo) delle pulizie non è un’amica o una collega “che ti dà una mano” per simpatia: è una lavoratrice pagata per svolgere un servizio. «Eh ma è un rapporto molto intimo, mi piega le mutande!» (Ho sentito anche questa). Vi svelo un segreto: questa persona non prova sentimenti nei confronti della vostra biancheria.
Mascherare la realtà
In molti casi, l’uso di un linguaggio elaborato non nasce dal desiderio di rispettare la dignità del lavoro, ma da un bisogno di sentirsi moralmente superiori. Il test: provate a esprimere delle perplessità sul tema, subito arriverà qualcuno a dirvi che voi, proprio voi che chiamate le cose col loro nome, siete classisti.
Il risultato è un’ipocrisia linguistica. Si maschera la realtà con formule che suonano più accettabili, per evitare il disagio che il termine “pulizie” sembra generare. Non accettiamo di essere così orrendi da chiedere ad altri di gestire la nostra sporcizia, eppure questo è ciò che facciamo. La questione non riguarda solo il linguaggio, ma anche il rapporto che abbiamo con il lavoro manuale e con la nostra stessa immagine: chi utilizza questi eufemismi vuole dissociarsi dalla sensazione di essere privilegiato. Ma privilegiato ci sei e ci rimani. Fra l’altro lo sei anche rispetto a chi non può permettersi di pagare chi gli lucidi il parquet. Solo che combattere i privilegi (e rinunciare in parte ai propri) costa fatica. Parlare in modo soave no.
Il vero focus
Se l’obiettivo ultimo fosse una reale equità, allora diremmo: è giusto che esistano lavori umili? Ed è giusto che alcune persone, solo perché hanno i soldi, paghino altri per svolgerli? Potremmo immaginare un mondo in cui ogni individuo si occupa autonomamente di tutti i propri bisogni, come una piccola repubblica autosufficiente.
Oppure un mondo in cui lo stipendio è uguale per tutti, indipendentemente dal lavoro svolto (ma in questo secondo mondo certi lavori sarebbero comunque considerati migliori di altri, non basta togliere la variabile economica). Tuttavia sappiamo abbondantemente che gli umani non auspicano l’esistenza di simili mondi. La realtà va da un’altra parte.
Tornando al concreto. Alcuni lavori sono utili al funzionamento di una comunità. Etichettarli zuccherosamente rischia di confondere il problema: non è la natura del lavoro a essere sbagliata, ma il modo in cui valorizziamo il lavoro. Come riconoscere il valore di una professione senza relegare chi la svolge a una condizione sociale di inferiorità, economica ma anche sociale?
Durante la pandemia abbiamo riflettuto sul merito etico delle professioni essenziali, che spesso sono professioni umili o precarie (che scoperta, eh?). Abbiamo speso belle parole cercando di capire come si possa creare una nuova idea di società che riconosca appieno il contributo di tutti i lavoratori. Finita la pandemia, siamo tornati a essere i soliti stronzi. Perché come sempre anche oggi ce la faremo domani.
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