La fine dell’anno è tempo di consuntivi. Ecco, secondo il mio personalissimo giudizio, quanto di buono, brutto, cattivo e perfino osceno ha mostrato la finanza italiana nel 2023.
Il buono. Imprese che riescono a competere con successo nel mondo. Lusso e alimentare sono tra i pochi settori in cui le imprese europee dominano nel mondo.
Qui abbiamo Moncler che, nonostante le difficoltà legate alla stagnazione cinese e all’aumento dei tassi, è riuscita a far meglio di colossi come LVMH, Richemont, Kering, ma anche di Prada e Burberry, mettendo a segno un +15 per cento, 8 punti in più della media degli altri. Non è un fuoco di paglia perché il mercato ci crede valutando il titolo 23 volte gli utili attesi nel 2024, contro 17 dei concorrenti. Voto 8.
Stesso voto per Campari che nel 2023 è salita dell’8 per cento. Meglio di Diageo, Pernod, Cointreau, Heineken e Carlsberg che in media hanno perso il 10. Un successo destinato a durare se si crede al mercato, che valuta Campari a forte premio: 25 volte gli utili 2024 rispetto al 17 degli altri. Voto 8.
La guerra ha portato in auge i titoli della difesa e in Europa la performance di Leonardo (+83 per cento) ha sbaragliato la nutrita concorrenza di Airbus, Thales, Bae, Rheinmetall, Safran, Dassault, Mtu, salite in media del 29. E c’è ampio margine per una replica, visto che nonostante la performance, Leonardo rimane ancora il titolo più a buon mercato del lotto segno che il mercato non sconta pienamente il suo potenziale di crescita. Per questo, voto 9.
Nel settore finanziario il buono lo ha mostrato Unicredit. Il mercato non ama le banche, che in borsa valgono meno del loro patrimonio netto. É particolarmente significativo che tra le dieci maggiori banche europee (Bbva, Santander, Deutsche Bank, Commerbak, Credit Agricole, Sogen, Bnp, Ing, Intesa, Mediobanca) Unicredit sia quella che nell’arco dell’ultimo anno é riuscita a creare più valore, riducendo lo sconto rispetto al patrimonio di ben 26 punti percentuali, rispetto a una media di 13. E lo ha fatto senza operazioni straordinarie, trading o investimenti rischiosi, ma con una gestione efficiente: il margine di interesse l’ha aiutata, ma Unicredit ha triplicato l’utile rispetto alla media dei precedenti 5 anni, ridotto il cost/income di 12 punti, aumentato la redditività sul capitale tangibile di 7, incrementando al tempo stesso la solidità patrimoniale (+2 punti il Cet1). Notevole. Avevo accolto l’arrivo di Orcel (e il suo compenso) con scetticismo. Mi devo ricredere. Voto 9.
Il brutto. In un anno in cui l’indice FTSE Mib ha messo a segno il 28 per cento, il brutto lo hanno mostrato DiaSorin, El.En, Ariston, Seco e Safilo che, tra i titoli non finanziari con almeno 300 milioni di capitalizzazioni, hanno avuto le peggiori performance con, rispettivamente, una perdita del 28, 31, 34, 35 e 40 per cento.
La maglia nera Safilo non è una sorpresa: i suoi problemi vengono da lontano e l’ingresso del fondo Hal nel 2009, nonostante i due aumenti di capitale del 2012 e 2019, non sono riusciti a risollevare le sorti dell’azienda. Essersi affidata a Chiara Ferragni per il rilancio (e conseguente disdetta dell’accordo) la dice lunga. Voto 5.
DiaSorin e El.En rappresentavano agli occhi degli investitori l’avanguardia del made in Italy nella tecnologia (laser) e medicale (diagnostico). Attratti dalle prospettive di crescita hanno gonfiato le valutazioni dei due titoli fino al massimo dell’autunno del 2021. Risultati e prospettive si sono rivelati però ben al di sotto delle aspettative e da allora i due titoli hanno dimezzato il valore (esattamente -54 e 45 per cento), lasciando l’amaro in bocca all’investitore deluso. Voto 4.
Molto peggio Ariston (caldaie) e Seco (microelettronica) sbarcate in Borsa appena nel maggio e novembre 2021, per sfruttare l’irrazionale esuberanza degli investitori di quel momento, e sospinta dal coro di entusiastiche analisi in odore di conflitto di interesse. Dopo il consueto breve picco di euforia, è stata solo una rovinosa caduta che ha falcidiato il 64 e il 45 per cento lasciando il cerino in mano ai risparmiatori che ci avevano creduto. Voto 3.
Plentitude è la società in cui ENI avrebbe scisso le attività nelle rinnovabili; condizionale d’obbligo in quanto quasi 90 per cento del margine di Plentitude deriva dalla distribuzione di gas ed elettricità a una decina di milioni di Italiani, che con le rinnovabili c’entra ben poco. Fallita la quotazione nel 2022 nel tentativo di migliore il proprio rating green, ora ENI ha venduto una quota a un fondo, in attesa di tempi migliori per la quotazione. La realtà è che Eni è la società energetica che quest’anno ha fatto meno investimenti in attività ambientali (fonte Financial Times). Caso emblematico di greenwashing. Voto 4.
La Rete Unica a controllo pubblico è strategica per il Governo. Ma non si è mai capito come intenda realizzarla e con che soldi. Prima manda avanti CDP con un’offerta in competizione con quella di KKR. Ma CDP si ritira per un groviglio di interessi che la vede simultaneamente azionista del venditore TIM oltre che di OpenFiber, concorrente nella rete, ma anche promesso sposo di KKR nei piani del Governo. Che quindi decide di investire direttamente a fianco di KKR; per poi dirottare su Sparkle (verrebbe scorporata?); e coinvolgere il Fondo F2i. Il capitolo finale vedrà inevitabilmente la fusione con OpenFiber, che altrimenti non sopravvive, e la costruzione di un bel monopolio misto pubblico-privato, che dovrà aumentare le tariffe per poter accollarsi l’ingente debito e gli esuberi di TIM, nonché garantire lauti dividendi a KKR e CDP. Modello Autostrade. Ovvero il cittadino paga le mire espansionistiche dello Stato azionista. Voto 4.
Il cattivo. Il cattivo è un brutto che però provoca danni collaterali.
Dopo il fallito tentativo di arrivare al controllo di Generali, Caltagirone ci ha riprovato con una sua lista (assieme a Delfin) in competizione con quella del consiglio uscente di Mediobanca illudendosi che gli investitori mandino a casa il management di una società ben gestita solo perché lui dice che la saprebbe gestire meglio, senza spiegare come. Sarebbe solo brutto, ma diventa cattivo perché Caltagirone, unico imprenditore ammesso alle consultazioni, riesce a far trasformare il D.L. Capitali da norma per scoraggiare le quotazioni in Olanda, in una pesante interferenza pubblica nella governance delle imprese private quotate, suscitando disapprovazione e sconcerto tra gli investitori esteri. Voto 4.
Annunciata a sorpresa dal Ministro delle Infrastrutture, che non dovrebbe occuparsi di banche, la tassa sugli extra profitti viene venduta come aiuto ai cittadini contro il caro mutui, ma è solo un modo per far cassa. Calcolata in modo sbagliato, corretta due volte, fa crollare i titoli bancari e peggiora la valutazione all’estero dell’affidabilità del nostro Governo. Invece di licenziare le menti che l’hanno concepita, la premier Meloni se ne intesta la paternità. Per poi fare completa retromarcia e trasformare la tassa in un incentivo alla capitalizzazione delle banche, con zero introiti per lo Stato. Esempio perfetto di cattivo: nessun vantaggio, ma un danno per il Paese. Si dirà: perché questa tassa va bene in Spagna? Perché il colmo per un Governo sovranista è copiare, peggiorandola, una pessima legge di un governo socialista. Voto 2.
L’osceno. Con il no al MES si è caduti nell’osceno. Ma il MES è una questione politica, non economica, sostiene il ministro Giorgetti. E cosa c’entra con la finanza? C’entra, e tocca tutti noi. L’economia Italiana da decenni è incapace di crescere, il che rende l’enorme debito pubblico accumulato difficilmente sostenibile. Già due volte abbiamo evitato il default grazie alla BCE e all’Europa. Una terza volta non è esclusa e il no al MES potrebbe costarci cara perché in cambio dell’aiuto, potrebbero chiedere alle famiglie italiane, con i loro 10.500 miliardi di ricchezza netta, di farsi carico con una patrimoniale di parte dei 2.900 miliardi del nostro debito pubblico. È finanza. Toccherebbe tutti. E quel che il Governo ha fatto è osceno. Voto 0.
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