La strategia del presidente che voleva prendere il meglio dalla sinistra e dalla destra è stata sconfitta dall’ondata di radicalizzazione della politica
La sfiducia al governo di Michel Barnier sigilla il fallimento politico del presidente Emmanuel Macron. Che non riguarda tanto le sue iniziative: alcune corrette, come la consultazione di due milioni di cittadini con più di 10.000 riunioni in tutta Francia su quattro temi centrali (le Grand Débat del 2019), e le più recenti consultazioni cittadine sul clima e sul fine vita; altre cervellotiche come lo scioglimento dell’Assemblea nazionale dopo le europee del giugno scorso; altre, infine, dettate da irrigidimenti ideologici come l’abbassamento delle imposte sulle grandi fortune (che il povero Barnier voleva reintrodurre).
Il fallimento del presidente francese rimanda piuttosto alla sua visione politica, al pensarsi e presentarsi al di là della destra e della sinistra. Il libro con cui lanciò la sua candidatura presidenziale a fine 2016 si chiamava, non a caso, “Révolution”. Macron intendeva modificare radicalmente la politica francese e sosteneva, testualmente, che i partiti erano morti, e bastava raccogliere il meglio della destra e della sinistra per governare. Dal centro, ovviamente.
Le due vittorie contro l’estrema destra di Marine Le Pen, grazie al soccorso della sinistra, avevano mantenuto in vita quella visione. Ma era una illusione ottica. Macron, e con lui molti epigoni italiani, non avevano tenuto conto dell’insegnamento del grande scienziato politico Maurice Duverger: il centro non esiste, aveva sentenziato nei suoi lavori.
La crescita continua delle formazioni di destra (estrema) e di sinistra (in parte estrema) nelle ultime elezioni nazionali, politiche ed europee, dimostrava come una politica che si barcamenava tra destra e sinistra finiva per scontentare tutti.
Arroganza
Macron è ritenuto, a giusto titolo, uno dei politici più intelligenti in circolazione. Eppure non si è reso conto che la politica non segue teoremi definiti: è impastata di emozioni e impulsi, di fascinazioni e rigetti.
La rivolta dei Gilet Gialli dopo appena un anno di presidenza, a fine 2018, avrebbe dovuto far capire che governare dall’alto reintroducendo una sorta di verticale del potere protogollista non poteva essere accolto senza scosse. Ogni riforma, ogni cambiamento necessita di una opera di convincimento per ottenere consenso.
L’arroganza intellettuale del potere, di cui Macron ha dato abbondante prova, va invece in direzione contraria, e nella convinzione di disporre la soluzione giusta, corretta, ottimale, sta agli altri capire. Insomma, ancora una volta, l’intendenza seguirà.
Questo atteggiamento ha portato alla crisi odierna. La politica intesa come luogo di conflitto ha ripreso il suo insopprimibile ruolo. E quindi un governo raccogliticcio, espressione dei perdenti delle urne, non avrebbe resistito a lungo alle tensioni parlamentari con le opposizioni.
Nonostante Michel Barnier si sia dimostrato così compiacente con l’estrema destra, tanto che il ministro dell’Economia fu costretto a una precipitosa marcia indietro dal proposito di non incontrare i rappresentanti lepenisti per coerenza con la difesa repubblicana, alla fine è stata proprio Marine Le Pen, a staccare la spina all’esecutivo per non staccarsi dal suo elettorato che non ne vuole sapere dell’establishment parigino e dei suoi altezzosi rappresentanti.
Onda estremista
I brontolii che salivano dalla periferia per il sostegno al governo del presidente e alla sua manovra economica non potevano essere ignorati dalla dirigenza del Rassemblement National. C’era il rischio di essere scavalcati dalla sinistra di Mélenchon nella rappresentanza della Francia che protesta. Alla fine, da autentico apprendista stregone Macron ha rivitalizzato la sinistra, finita in buco nero dopo il disastro della presidenza Hollande, e dato ulteriore spinta alla destra lepenista.
Altro che dominio del centro. Del resto, la radicalizzazione politica attraversa tutto l’Occidente. La vittoria di Trump non è che l’ultimo, clamoroso esempio di come una campagna d’odio, condotta senza sosta per anni contro gli avversari, alla fine sfondi presso elettorati scontenti, arrabbiati e delusi.
Questa radicalizzazione mette in tensione le democrazie perché è provocata in gran parte da nuovi attori politici che non si riconoscono nei fondamenti delle liberal-democrazie. Ne sono estranei per storia e cultura politica la destra antirepubblicana in Francia e la nostalgia per le camicie nere e brune in Italia e Germania.
L’insegnamento che ci viene dalla Francia è proprio questo: i nemici della democrazia crescono sulle incertezze e le timidezze dei democratici e sul loro nascondersi in una zona grigia tecnocratico-centrista.
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