- Il mio ragazzo, ancora scosso mi ha scritto che camminando da viale Tunisia a Lima, zona porta Venezia a Milano nel corso di 500 metri l’hanno chiamato frocio tre volte.
- Neanche a farlo apposta qualche giorno prima un saggio dell’aria che tira l’avevo avuto io.
- Non c’è bisogno di “vestirsi da donna”, “esagerare”: possono bastare un paio di pantaloni di una stoffa non inclusa nel campionario permesso dalla partitura di genere, e quello che può accadere, da lì in poi, non si sa.
Vivo a Milano e l’altro ieri, orario di pranzo, stavo per entrare a mangiare in un ristorante con una docente di Venezia per discutere di un incontro futuro.
Lo schermo del telefono mi si è illuminato: una notifica, un messaggio del mio ragazzo, che avevo appena salutato due vie più in là. Ancora scosso mi ha scritto che camminando da viale Tunisia a Lima, zona porta Venezia, una fermata di metropolitana, nel corso di 500 metri l’hanno chiamato frocio tre volte. Un gruppo di muratori, un clochard rumeno che l’ha insultato nella sua lingua – il mio ragazzo è nato in Romania – e un italiano cinquantenne in giacca e cravatta. Il mio ragazzo indossava dei jeans strappati sulle ginocchia e degli stivaletti a punta. È alto e magro, non cerca di imitare modelli e modi virili che non gli appartengono.
Neanche a farlo apposta qualche giorno prima un saggio dell’aria che tira l’avevo avuto io: preparandomi per una presentazione al Festival Mix (dedicato al cinema Lgbt) in zona Lanza, ho indossato dei pantaloni cangianti, qualcuno direbbe appariscenti – io penso fossero solo molti belli. Sono andato al festival coi mezzi: autobus, metro, alcuni brevi tratti a piedi.
Uscito di casa ho pensato che avrei fatto meglio a chiamare un taxi, perché sapevo, ormai so cosa succede – occhi spalancati, gente che si dà di gomito, risate. Se ti va male arriva appunto l’insulto, se sei molto sfortunato (mi è, ci è capitato) arrivi a fare la conoscenza del corpo, delle mani del normalizzatore di turno. Sfiga enorme se poi incroci i gruppi, di maschi, ma anche misti, perché il binarismo è un sistema condiviso e uniforme.
Non c’è bisogno di “vestirsi da donna”, “esagerare”: possono bastare un paio di pantaloni di una stoffa non inclusa nel campionario permesso dalla partitura di genere, e quello che può accadere, da lì in poi, non si sa. E attenzione: non è qualcosa che riguarda esclusivamente le periferie, il degrado, o solo il passato. La cultura omotransfobica è rigogliosa e trasversale, gode di ottima salute. E quelli più riconoscibili – coraggiosi, liberi, ingenui – fungono ancora oggi, pure a Milano centro, da bersagli mobili.
Nelle strade vige la legge del più forte, i corpi dei non allineati sono esposti ai sinistri di un sistema che si ritrova ovunque. Ancora oggi, Milano, 2020, se la tua dissidenza all’eteronormatività è evidente, devi sperare di avere fortuna.
Le cronache delle ultime settimane rendono evidente quanto sia importante che si arrivi in fretta a una (solida) legge contro l’omotransfobia e la misoginia: un provvedimento certo non risolutivo, ma che ponga almeno i presupposti per lavorare a una ristrutturazione culturale e emotiva del nostro Paese. Magari riuscendo prima o poi a raggiungere anche le scuole, roccaforti della tradizione, rese intoccabili dalle resistenze di tutte quelle famiglie (la maggior parte) che vedono ancora nell’educazione di genere e affettiva una minaccia all’integrità fisica e mentale dei figli, uno strumento di corruzione.
Sbaglia chi pensa che i tempi oggi siano cambiati, che l’oppressione delle diversità sia tramontata: è che, mediaticamente, ci si accorge solo dei picchi, delle detonazioni, delle grandi tragedie, ma tutti noi irregolari garantiamo che siamo in molti a vivere cose come quelle che ho raccontato in queste righe: solo che siamo abituati a tenercele per noi, siamo abituati ad aumentare il passo, ad aspettare che smettano.
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