Trump sarà a Parigi domenica per l’inaugurazione di Notre Dame dopo la ricostruzione. Troverà le macerie politiche del governo di Barnier e i resti fumanti di un progetto così “jupitérien” da oscurare il voto del popolo. È uno spettacolo piacevole per un presidente eletto che ha promesso alla disprezzata Europa guerra commerciale e solitudine strategica
Donald Trump sarà a Parigi per celebrare il «wonderful job» che ha fatto il presidente Emmanuel Macron con la ricostruzione della cattedrale di Notre Dame, ma accanto alle sontuose navate gotiche troverà le macerie politiche del governo di Barnier e i resti fumanti di un progetto così “jupitérien” da oscurare il voto del popolo.
È uno spettacolo piacevole per un presidente eletto che ha promesso alla disprezzata Europa guerra commerciale e solitudine strategica, rimproverandole come al solito di non riuscire a badare a sé stessa e di rifugiarsi sempre sotto l’ombrello protettivo degli Stati Uniti. Il fatto rilevante, agli occhi di Trump, è che la crisi francese non è soltanto un fatto politico interno, ma è un allarme a livello dell’Unione. Dietro alla dialettica fra gli estremi (Jean-Luc Mélenchon e Marine Le Pen) cresce infatti un’eurocrisi che ha alcuni tratti in comune con quella del 2011.
La crisi europea
Il governo Barnier è caduto perché non ha trovato una maggioranza per sostenere una legge di bilancio che, attraverso sacrifici notevoli, tendeva a rendere sostenibile un debito pubblico arrivato al 110 per cento del Pil (ha superato quello della Grecia) e sul quale grava un tasso di interesse che non è trascurabile, come invece era stato in passato.
Su queste premesse l’euro è ulteriormente crollato in questi giorni e i mercati danno segnali di grande nervosismo e paura del contagio: il problema non è appena la generica instabilità del governo francese, né la prospettiva di un’avanzata del Rassemblement National, ma la constatazione che la seconda economia dell’Unione non ha la volontà politica di fare ciò che è necessario per rendere il suo debito sostenibile.
In questo senso, il problema della Francia è un problema europeo – così come lo erano la Grecia, e in misura diversa l’Italia, nella crisi del debito di quasi quindici anni fa – e non si può ridurre una questione strutturale alle sole acrobazie di Macron o alla minacciosa ascesa di Le Pen.
C’è un’imperfetta analogia con la crisi della Germania, dove il governo è saltato per l’indisponibilità del ministro delle Finanze a fare altro debito per continuare a sostenere in modo consistente l’Ucraina. Il problema in quel caso non era il debito, ma l’assenza della volontà politica di portare avanti una posizione che definisce la linea dell’Unione Europea, contrastandone gli inevitabili particolarismi e nazionalismi. Anche in quel contesto, il governo è saltato impedendo una manovra tesa alla coesione delle posizioni europee, non alla disintegrazione.
Il regalo a Trump
È questo lo scenario in cui cresce e prolifera il trumpismo, sghemba filosofia nazionalista, protezionista e isolazionista. Anche se a parole Trump auspica una sempre maggiore autonomia dell’Europa, è un antagonista naturale della crescita dell’unione come soggetto politico.
Preferisce di gran lunga avere a che fare con stati indeboliti e pericolosamente indebitati dai quali ottenere accordi bilaterali vantaggiosi per Washington. Il clima di litigiosità interna e crisi permanente è lo sfondo ideale per l’insediamento di Trump, che contestualmente vuole anche risolvere il conflitto in Ucraina attraverso il negoziato. Ha apprezzato, in questo senso, la caduta del governo di Olaf Scholz, e in modo simile si rallegra per la crisi di Macron.
© Riproduzione riservata