In un libro giustamente famoso e molto citato sulla cittadinanza transnazionale uscito nel 2004, Noi cittadini d’Europa, Étienne Balibar utilizzava il concetto di «apartheid europeo» per significare la costruzione dell’identità politica della e nell’Unione europea.
Lo faceva per mostrare «la natura critica della contraddizione tra i movimenti opposti di inclusione ed esclusione, la duplicazione delle frontiere esterne sotto forma di “frontiere interne”, la stigmatizzazione e la repressione di popolazioni la cui presenza all’interno delle società europee è tuttavia sempre più massiccia e legittima».
Balibar chiariva che la richiesta di integrazione europea (proprio come di quella di un qualunque stato-nazione), mette in luce la tensione tra inclusione ed esclusione. Quel che stride in questa replica dello stato-nazione a livello europeo è che l’Europa ha avuto dalla sua nascita l’ambizione di stemperare i nazionalismi.
E invece, nonostante non ci sia una sovranità europea, il vecchio continente ha progressivamente generato una normativa e una mentalità di esclusione degne di uno stato nazionalista. Questo processo di nazionalismo senza uno stato ha avuto la sua gestazione nella questione della migrazione che ha rimesso in circolo un antico fenomeno europeo, quello del ghetto.
Come vediamo ogni giorno da anni, la discussione su emigrazione e immigrazione di individui ha lasciato il posto a quella sul respingimento, sul contenimento di alcuni gruppi di persone che vengono da paesi non europei, stigmatizzate e represse perché non europee. Il termine “migrazioni” e “migranti” ben significa questo slittamento dal diritto classico degli stati che prevede, appunto, l’uscire e l’entrare (emigrare e immigrare) al blocco del movimento o del migrare di gruppi.
Migrare è un andare che l'Europa vuole fermare. Fermare chi migra (un personaggio televisivo ha usato l’analogia con la transumanza degli animali) comporta trasformare le frontiere in “corridoi” alla fine dei quali ci sono luoghi di detenzione, che sono come un limbo (i Centri di permanenza per i rimpatri): dovrebbero essere temporanei ma sono associati a una colpa da espiare. La colpa di migrare.
I migranti sono condannati come gruppo. Per loro non ci sono le frontiere come siamo soliti rappresentare i confini degli stati. Per loro ci sono nuovi ghetti, che stanno prendendo la fisionomia delle frontiere d’Europa, e che l’Europa contribuisce a finanziare.
Il Consiglio d’Europa e il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti hanno voluto porre limiti a questa forma di privazione della libertà che è il limbo dei Cpr. Specificano che tale privazione è consentita, «purché si tratti di una misura adottata in vista dell’espulsione, o per prevenire un ingresso non autorizzato nel territorio nazionale. La privazione della libertà dei migranti in situazione irregolare non potrà essere né arbitraria, né la conseguenza automatica di una (presunta) violazione della legislazione relativa agli stranieri. In altri termini, il provvedimento di trattenimento dei migranti deve essere eccezionale, proporzionato e, di conseguenza, rappresentare una misura individuale necessaria per prevenire l’immigrazione clandestina».
Ma nonostante questa buona volontà, è proprio l’idea stessa di bloccare e di finanziare corridoi e centri solo per gruppi di non europei, i migranti, che educa una mentalità nefasta, quella del ghetto.
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