- Con il Dpcm del 3 dicembre si è introdotto un tavolo di coordinamento, presieduto del Perfetto, che dovrebbe portare al ripristino della didattica in presenza. La farraginosità del meccanismo rischia di compromettere la celerità dei provvedimenti.
- Intanto, proseguono le decisioni discordanti dei tribunali sul tema della scuola. Il Tar del Piemonte ha ritenuto di non sospendere la decisione del Presidente della Regione che protrae la didattica a distanza alle medie, nonostante il passaggio in zona arancione.
- Da ultimo, una decisione del Tar del Lazio, riguardante l’uso delle mascherine in classe nella fascia di età fra i 6 e gli 11 anni, investe anche profili di legittimità dei Dpcm.
In questi mesi, Domani ha dedicato un’attenzione particolare alla scuola. Dai salvifici banchi a rotelle all’opacità dei relativi bandi, era palese che non si stava affrontando la questione come sarebbe servito.
Il sacrificio del diritto all’istruzione
Dopo le rassicurazioni estive della ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina circa il fatto che le scuole sarebbero rimaste aperte a ogni costo e un inizio dell’anno scolastico ritardato o, comunque, sospeso per il referendum di fine settembre, da ottobre sono cominciate le ordinanze regionali che sospendevano le lezioni in presenza.
Si è così arrivati al Dpcm del 3 novembre che, nel ripartire il territorio nazionale in tre aree di rischio, ha disposto la didattica a distanza (Dad) esclusivamente nelle zone rosse, solo per le superiori e la seconda/terza media.
Siccome la classificazione in zone da parte del ministro della Salute avviene in base a dati forniti dalle Regioni, sembrava che queste ultime non avrebbero più avuto motivo per adottare decisioni diverse da quelle centrali, data la comune base informativa.
Le cose sono andate diversamente, anche perché - come già spiegato - la norma di un decreto-legge (d.l. n. 125/2020, a modifica del d.l. n. 33/2020) consente comunque ai presidenti di regione di «introdurre misure derogatorie» rispetto a quelle del governo, purché più «restrittive».
Le ordinanze regionali di chiusura delle scuole sono pertanto proseguite. Così, a parità di zone di rischio, il diritto all’istruzione è stato tutelato – anzi, sacrificato – in modo diverso.
Il nuovo meccanismo per il nodo-scuola
Si è infine arrivati al Dpcm del 3 dicembre scorso, che introduce un articolato meccanismo per sciogliere il nodo-scuola. I prefetti hanno il compito di coordinare trasporti pubblici locali e scaglionamento degli orari scolastici a un tavolo cui partecipano molti esponenti dei settori coinvolti, redigendo poi un documento operativo in base a cui ogni amministrazione adotta le misure di competenza.
Nel caso in cui le misure non operino per tempo, il prefetto lo comunica al presidente della regione, che ne garantisce l’applicazione con ordinanza.
Il meccanismo solleva alcuni dubbi.
Da un lato, si rischia che il tempo necessario per mettere “burocraticamente” d’accordo la pletora dei partecipanti al tavolo impedisca l’adozione dei provvedimenti con la sollecitudine che servirebbe.
Dall’altro lato, il potere di ordinanza (l. 833/1978, art. 32), che il presidente delle Regione dovrebbe esercitare autonomamente in quanto titolare, viene indirizzato dal presidente del Consiglio con Dpcm al fine di attuare misure decise da un terzo soggetto, il Prefetto.
Insomma, un gran pasticcio non solo operativo, ma di diritto. Peraltro, dopo aver accusato per mesi le regioni di attentare alla gestione centrale dell’emergenza, il governo finisce per delegare alle regioni stesse la soluzione di un problema che il prefetto non sia in grado si definire. È il rimpallo di responsabilità cui si assiste sin dall’inizio della pandemia.
La decisione del Tar Piemonte
Se l’obiettivo è la ripresa della scuola in presenza, delegare la soluzione di problemi ai presidenti di regione, ove il prefetto dovesse fallire, non lascia sereni.
Da un lato, proseguono le ordinanze di chiusura, nonostante il miglioramento della situazione (da ultimo, il Molise per le scuole primarie e secondarie di primo grado); dall’altro lato, aumenta la varietà delle decisioni dei giudici circa la Dad.
Una recente decisione del Tar Piemonte, in sede cautelare, poi ribadita anche in sede di merito, ha confermato il decreto con cui il presidente della giunta piemontese dispone la didattica a distanza nelle seconde e terze medie fino al 23 dicembre, nonostante il passaggio in zona arancione.
Il tribunale ha confermato la fondatezza del principio di precauzione su cui si fonda il decreto, dato «l’aumento dei contagi a partire dall’inizio scolastico» e il miglioramento della situazione dopo la chiusura delle scuole medie, «sede “privilegiata” di diffusione del virus». La pronuncia lascia perplessi.
Le restrizioni di diritti garantiti costituzionalmente - in questo caso del diritto all’istruzione, la cui limitazione può tradursi in minore efficacia educativa e pregiudizio per gli alunni – devono essere proporzionate rispetto al rischio che si corre.
Ma la mancanza di trasparenza circa i pareri scientifici su cui si basa il decreto piemontese, così come sugli esiti degli stanziamenti della Regione per il digitale nelle scuole, non consente un vaglio di proporzionalità.
Peraltro, il cosiddetto decreto Ristori bis ha disposto che il ministro della Salute Roberto Speranza, «con frequenza almeno settimanale», verifichi il perdurare dei presupposti per la permanenza della regione in una certa zona di rischio.
Dunque, lo spazio di intervento dei presidenti di regione non dovrebbe protrarsi per più di una settimana – salvo criticità in specifiche aree territoriali - come invece accade per l’ordinanza del Piemonte.
Il Tar Lazio sul Dpcm del 3 novembre
Sempre in tema di scuola, una recente ordinanza del Tar del Lazio ha formulato critiche che, pur riferite al Dpcm del 3 novembre scorso, possono estendersi anche ad altri decreti.
La decisione riguarda un ricorso circa l’uso della mascherina, imposto dal citato Dpcm «in modo incondizionato sul tutto il territorio nazionale» ai bambini di età compresa fra i 6 e gli 11 anni, anche durante l’orario scolastico, senza alcuna considerazione di tipo epidemiologico o di altra natura.
Secondo i magistrati, dal Dpcm «non emergono elementi tali da far ritenere che l’amministrazione abbia effettuato un opportuno bilanciamento tra il diritto fondamentale alla salute della collettività e tutti gli altri diritti inviolabili, parimenti riconosciuti e tutelati dalla costituzione».
La decisione sottolinea, tra l’altro, una delle criticità evidenziate da giuristi sin dall’inizio dell’emergenza: l’assenza di trasparenza dei pareri scientifici posti a fondamento dei Dpcm e, quindi, dei dati su cui si basano le relative restrizioni.
Da ciò deriva l’impossibilità di verificare la proporzionalità delle restrizioni stesse rispetto al pericolo che si vuole scongiurare. Insomma, si tratta del medesimo rilievo esposto riguardo al decreto del tribunale piemontese.
Il Tar ha pure sottolineato dubbi circa la mancanza di temporaneità delle misure dei Dpcm, che di fatto vengono rinnovate «con cadenza quindicinale o mensile». «Le numerose e complesse questioni, anche di illegittimità costituzionale», prospettate nel ricorso saranno esaminate nell’udienza di merito, il 10 febbraio 2021.
Intanto, il prossimo 31 gennaio finirà lo stato di emergenza. Avrà fine prima o poi anche l’emergenza del diritto?
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