Dunque è arrivato il giorno della Rivoluzione (della Liberazione, per i meno sani di mente tra noi), finalmente non è più obbligatorio indossare la mascherina all'aperto: tutta l'Italia è Zona Bianca e non importa se la Zona Bianca è da tempo dentro di noi, epperò è sbagliata.
È una citazione di Corrado Guzzanti (come tutta la realtà di questo secolo), è una citazione degli anni Novanta: anni Novanta che tornano crudeli alla mente ogni qual volta che il ministro Speranza, o il Cts, o il virologo con l'agente migliore decide di annunciare la “svolta”, la rivoluzione.
Perché la grande speranza degli anni Novanta, quella che più ci faceva sognare scenari favolosi e possibilità infinite, era la Realtà Virtuale. Sarebbe bastato indossare uno di quei visori futuribili, ed ecco un altro mondo più giusto, più libero, più eccitante a nostra disposizione.
Poi sarà stata la crisi economica (ma quale?), sarà stato Internet con le sue bolle separate e private come le nostre fantasie, saranno state le app che hanno reso virtuale anche il sesso e gli amici e ordinare una pizza, ma di quegli scenari eccitanti e nuovi se ne è presto persa memoria.
Fino alla pandemia, fino allo tsunami di regole, regolamenti, raccomandazioni e rivoluzioni che da un anno e mezzo ci angustiano, e che ci hanno fatto scoprire che invece la Realtà Virtuale non era morta ma solo svenuta, aspettava l'occasione: essa vive negli annunci di Roberto Speranza.
Lo avevamo sospettato in tempi più bui, alla Prima Ondata (che sembra più lontana degli anni Novanta), ai tempi dell'autocertificazione per uscire di casa. Potete stamparla qui, Dovete portarla con voi, Dovete mostrarla a, Dovete dimostrare che.
Ho sognato per mesi di essere fermato, di mostrarla a, di dimostrare che, di dare spiegazioni inappuntabili a poliziotti severi ma giusti, di sentirmi cittadino modello o schiavo della distopia: dipendeva dai giorni, e da quali serie tv stessi guardando.
Non ho mai incontrato un controllore, non conosco nessuno cui sia mai successo, a Milano come nella provincia più ferina, tra le persone che si recavano onestamente al lavoro o (la maggioranza) tra i perdigiorno come me che facevano la passeggiata vascolare. Ma nella Realtà Virtuale (o Virtuosa?) di Speranza serviva il pass, il pass ci avrebbe salvato.
Poi venne l'era del Coprifuoco, e delle folle a Trastevere e sui Navigli a mezzanotte, forse anch'esse in disperata attesa che qualcuno gli dicesse, come Fantozzi al panettiere, «lei deve rendermi conto». Gente che poi passava il weekend nelle seconde case. Gente che ignorava che nella Realtà Virtuale si trovava invece nella prima casa, a stampare l'ultimo modello di autocertificazione, a chiedere agli amici sui social se si potesse andare a comprare il pane, se girassero le ronde, se fossimo in Roma Città Aperta (alcuni, fan della Realtà Virtuale quanto del Grande Cinema, lo chiedevano sul serio: avrei risposto «Di' che sei tipografo, ti fanno passare», ma sapevo che lo avrebbero fatto davvero, nella remota ipotesi di un controllo).
E adesso lo stop alle mascherine all'aperto: quelle che da marzo almeno vediamo al gomito, al mento, comunque sotto il naso del passante, dell'avventore di bar che ci chiede l'accendino, del conoscente che sputa il suo saluto a trenta centimetri. E mai nessuno in giro a cui denunziarli.
Nella Realtà Virtuosa respiriamo finalmente liberi, va messa solo al chiuso. Come facevamo da mesi nella realtà reale. E chissà se hanno aggiornato il software di Speranza, chissà se nel suo visore c'è già l'upgrade alla variante Delta. Nella realtà sì, “ma da mo!”, come dicevano in Ferie d'agosto di Virzì: non a caso, il film simbolo dei nostri gloriosi anni Novanta.
© Riproduzione riservata