La legge 40 consente di ricorrere a questa pratica solo a determinate condizioni, inoltre fa della maternità surrogata un reato. Così le coppie attivano una pratica che all’estero è legale per farne registrare gli effetti in Italia, aggirando in tal modo gli ostacoli normativi. Colpa di un legislatore che, sulle questioni davvero urgenti, preferisce rimanere inerte. Così i giudici costituzionali sono stati nuovamente chiamati a esprimersi sulla faccenda
Puntuali tornano le reprimende all’inerzia del legislatore. Ultimo in una catena di evocazioni ormai più che rituali, il tribunale di Lucca la scorsa settimana ha chiesto alla Corte costituzionale di esprimersi sulle lacune della legge 40 del 2004, che regola il ricorso alle tecniche di riproduzione assistita.
A queste possono accedere solo coppie eterosessuali, sposate o conviventi, in età potenzialmente fertile. A cesello, la legge fa della maternità surrogata un reato – che il governo ha promesso di rendere «universale» (ovvero punibile dalle autorità italiane ovunque nel mondo venga commesso).
In ragione di tali restrizioni, molte coppie, eterosessuali e non, si recano in paesi dove la maternità surrogata è ammessa e aperta alle coppie indipendentemente dal loro sesso. Il paese estero riconosce quindi il legame tra il bambino e ambo i genitori: sia quello biologico, che ha prestato il proprio corredo genetico, sia quello cosiddetto intenzionale.
Quando però la coppia chiede che l’atto di nascita rilasciato nel paese estero venga riconosciuto dalle autorità italiane, il plot è sempre lo stesso: il comune perlopiù accoglie, la procura della Repubblica impugna, e si finisce in tribunale.
Proibizioni incrociate
In sintesi, l’espediente delle coppie è attivare una pratica che all’estero è legale e farne registrare gli effetti in Italia, aggirando in tal modo gli ostacoli legislativi. Una serie di proibizioni incrociate ne ha però limitato l’efficacia.
Per un verso, la corte di Cassazione e la Corte costituzionale hanno ribadito l’incompatibilità della maternità surrogata con l’ordine pubblico italiano e hanno negato l’esistenza del diritto alla genitorialità per le coppie dello stesso sesso.
Per altro verso, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha stabilito che le autorità italiane possono legittimamente negare la trascrizione degli atti rilasciati all’estero e che il genitore intenzionale, per vedersi riconosciuto un legame con il bambino, può ricorrere allo strumento dell’adozione.
L’interesse del minore
Ma la questione è tutt’altro che chiusa in virtù di un principio che si è procacciato una forza normativa superiore a qualsiasi legge ordinaria e costituzionale: il “principio di superiore interesse del minore”, che chiama il giudice a valutare in primo luogo quale sia lo scenario di maggior tutela per il bambino. E in effetti, negli ultimi decenni la figura del minore è di fatto diventata il fulcro oltreché l’asse portante dell’intera impalcatura del diritto di famiglia a livello nazionale ed europeo.
Nel vessato caso delle trascrizioni degli atti di nascita, la giurisprudenza italiana ha stabilito che il superiore interesse del minore comanda il pieno riconoscimento sociale e giuridico dei legami che lo uniscono ad ambo le figure della coppia.
In effetti, mentre ribadiva il diritto delle autorità nazionali a negare la trascrizione, la Cedu ha sottolineato l’imprescindibile necessità che gli strumenti alternativi siano «veloci ed efficaci», laddove lungaggini e costi fanno dell’adozione uno strumento inadeguato.
E dacché in Italia le corti, non importa quanto alte, non possono fare leggi, la Consulta ha fatto ricorso al tradizionale monito al legislatore, il quale, sempre per tradizione, sulle questioni davvero urgenti preferisce rimanere inerte. Questo spiega perché i giudici costituzionali siano stati nuovamente chiamati a esprimersi sulla faccenda.
La rivoluzione degli affetti
Nell’attesa, m’invade come una nota di stupefatto pessimismo. In circostanze storiche, come le presenti, in cui torna a diffondersi il piacere per il gusto irrancidito dei valori forti, la destra, di governo e non, rispolvera l’allure immarcescibile dell’istituto della famiglia sedicente naturale.
Nel frattempo, persino chi combatte per l’incontestabile riconoscimento del diritto a costruire una compagine famigliare piena è costretto a ricorrere a una strategia che santifica l’infante e ne fa il suggello di un tipo di amore diadico e orientato alla procreazione, che per paradosso dovrebbe piacere proprio ai conservatori.
Nessun biasimo, beninteso: è quanto il diritto esistente permette di utilizzare a mo’ di grimaldello a chi vuole far valere i propri diritti. Eppure, ricordo con nostalgia gli effervescenti affreschi della cosiddetta famiglia queer, che solo qualche anno fa sperava di ricavarsi uno spazio nella legislazione e scatenare così una rivoluzione degli affetti – posizione che oggi sembra collocarsi a metà strada tra il delirio e la sovversione. E se questo è il segno di una qualche traiettoria storica, speriamo che il noto giudice di Berlino voglia prendere residenza al palazzo della Consulta.
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