Non c'è mai nessun “ordine che regna a Varsavia”, per citare una frase storica, quando cade un regime. C'è il caos dapprima e certo non fa eccezione la Siria.

Il suo nuovo leader, nome di battaglia Abu Muhammad al-Jolani, da quando ha baciato un prato di Damasco preferisce usare l'onomastica che gli diedero mamma e papà, Ahmad Shaara, rampollo di famiglia laica, poi falco combattente per al-Qaeda e la sua filiale siriana al-Nusra, infine auto-certificatosi portatore di un jihadismo nuovo, rispettoso delle altri religioni anche se non è ancora chiaro se parallelamente fautore di un sistema democratico.

Troppi trasformismi per non nutrire il sospetto, almeno il sospetto, che stia praticando la “taqiyya”, cioè la dissimulazione, stratagemma per occultare le proprie vere intenzioni, usato soprattutto dagli sciiti ma non disdegnato all'occorrenza nemmeno dai sunniti di cui al-Jolani fa parte.

Come altro definire altrimenti il percorso di Recep Tayyp Erdogan, il vero regista della cacciata di Bashar Assad, agli esordi un liberista democratico e persino desideroso di entrare nell'Unione europea, mutatosi con il tempo in sultano di Istanbul? O Hamas così rassicurante nel 2006 quando vinse le elezioni palestinesi tanto da annunciare la volontà di un governo di unità nazionale con i nemici laici di Fatah, salvo optare poi per una gestione dittatoriale della Striscia di Gaza e approdare all'orrore del 7 ottobre?

Al netto dell'eventuale dissimulazione e degli sconvolgimenti che la cacciata del tiranno di Damasco provocherà nell'ulteriore disordine mondiale, al-Jolani o Ahmad Shaara che dir si voglia, è già oggi l'alfiere della “riscossa sunnita” dopo quella che negli Anni Dieci del nuovo millennio fu definita la «rivincita sciita», nell'eterno dualismo che all'apparenza rappresenta due visioni diverse dell'Islam ma che nella realtà altro non è se non una lotta di potere per il primato regionale.

La dorsale sciita

La “rivincita” si era concretizzata con il perfezionamento di una dorsale sciita che partendo dal faro di Teheran, dalla Repubblica teocratica degli ayatollah, senza soluzioni di continuità partiva dal Golfo Persico per approdare sulle sponde del Mediterraneo.

Era stata possibile, per paradosso, grazie alla guerra in Iraq di Bush figlio, che aveva determinato il crollo di Saddam Hussein (il dittatore sunnita espressione di una minoranza del Paese) a favore della maggioranza sciita. Era l'anello mancante dell'asse che poi si snodava con la Siria degli Assad (all'opposto una minoranza sciita che governava un Paese a maggioranza sunnita) e infine il Libano apparentemente democratico ma egemonizzato dallo strapotere militare di Hezbollah, il partito di Dio. A cui andrebbe aggiunto Hamas, sunniti ma alleati di Teheran a causa di interessi convergenti: gli ayatollah volevano gestire una spina nel fianco del nemico israeliano e in cambio Hamas riceveva armi in abbondanza e consulenti militari.

Nonostante l'apparenza di un regime solido a causa della sua crudeltà, la Siria era l'anello debole. Non poteva durare ancora a lungo un sistema in cui una famiglia al potere in rappresentanza dei 14 per cento della popolazione vessava la stragrande maggioranza costituita in larga parte da sunniti, cui andavano aggiunti i curdi.

All'esplosione della “primavera araba” si era persino pensato che in Siria la soluzione avrebbe potuto essere una cantonizzazione con larghe autonomie regionali che rispecchiassero i vari gruppi etnico-religiosi del Paese. La storia prese un'altra direzione perché la sfida dello Stato islamico (sorto a cavallo tra l'Iraq e la Siria) obbligò ad occuparsi di altre urgenze e Bashar Assad poté contare per contrastarlo non solo sull'appoggio diretto dei tradizionali amici russi, ma in certa misura e obtorto collo, anche dell'occidente che formò la coalizione anti-Stato islamico, favorendo così il regime.

La riscossa sunnita

Ma il processo della “riscossa sunnita” era già in atto e aspettava l'occasione propizia per essere condotto a termine. Le circostanze perfette si sono allineate non solo perché la Russia è in un'altra pesante guerra affaccendata, m anche perché Israele si è presa la briga di fiaccare le milizie di Hezbollah, alleate di Bashar Assad e pure decisive in passato nel sostenere il suo regime quando già sembrava al collasso.

Al-Jolani, dopo aver federato sotto il suo comando tutti i gruppi di jihadisti sconfitti ma non annientati, ha colto l'attimo sfruttando anche il padrinaggio di Erdogan, nato politicamente non dimentichiamolo da una costola dei Fratelli musulmani egiziani, la cui ambizione è quella di rimettere Istanbul al centro della scena, faro del mondo sunnita come lo fu all'epoca dei sultanati. La sua competizione per il primato nell'universo musulmano è con l'Arabia Saudita e sarà da capire come si svilupperà dopo il punto clamoroso segnato a suo favore.

Dunque, riassumendo, fine della dorsale sciita, riduzione dell'influenza dell'Iran la cui impotenza è stata messa a nudo dalla soverchiante supremazia bellica israeliana che gli ayatollah non si sono sentiti di sfidare nonostante gli omicidi mirati dello Stato ebraico a Teheran e la devastazione dei suoi alleati.

I sunniti rialzano la testa e resta da capire chi si intesterà la guida, riuscendo ad imporre la sua egemonia. L'Arabia Saudita può giocare il jolly dell'appoggio di Donald Trump, il fautore degli Accordi di Abramo che il principe Mohamed bin Salman sembrava voler firmare con Israele prima che che fossero messo in pausa dalla reazione agli attacchi del 7 ottobre. Erdogan pare invece più interessato a farsi paladino della causa palestinese e dello scontro con lo Stato ebraico. Alla fine gli equilibri del Medio oriente dipendono sempre da Tel Aviv.

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