Curiosa la sorte, di chi ha avuto il privilegio di vivere il lento naufragare della sinistra – italiana, europea – godendoselo quasi, annacquando il dolore nell’ironia bonaria e confortante di personaggi come Bobo. L’alter ego di Sergio Staino nasce nel 1979: lo stesso anno in cui alle elezioni per la prima volta, dopo trent’anni, il Partito comunista perse voti; e l’anno in cui Margaret Thatcher divenne premier in Inghilterra. Già si capisce che queste date non sono una coincidenza. Del resto non lo era nemmeno quell’incrocio che aveva segnato, pochi anni prima, l’irruzione di Cipputi dalla penna di Altan: era il 1975, cioè proprio quando terminava il miracolo economico e il reddito degli italiani era diminuito, dopo tre decenni di crescita costante.
Ora, mettiamo insieme i due eventi. Cipputi, il metalmeccanico che riflette sulle disfatte della classe operaia, vede la luce proprio quando la cultura industrialista, passato l’apice, vira inesorabilmente verso il declino. Bobo, il fedele militante di partito che si arrovella invece sulle vicende della politica nazionale e internazionale, sorge a sua volta esattamente quando – in parte conseguenza di quanto sopra – anche la cultura politica della sinistra entra in crisi, in Italia come nel resto dell’occidente. I due personaggi in questo senso si completano. E si completano anche perché Bobo è di estrazione sociale diversa da Cipputi: non colletto blu ma piuttosto ceto medio, istruito, forse dipendente pubblico (come d’altronde il suo creatore, laureato in architettura e professore di scuola); l’altra gamba insomma del consenso ai partiti progressisti, nell’era della prosperità di massa.
Naturalmente il 1979 è solo l’inizio. Alla Thatcher già nel 1980 si affiancherà Reagan e insieme i due inaugureranno un nuovo corso dell’economia e della politica mondiale, il neo-liberismo. E in Italia il PCI andrà incontro a nuove sconfitte – con la sola eccezione delle europee seguite alla morte di Berlinguer – fino al suo scioglimento nel 1991. Bobo osserverà tutto questo con qualche accento critico, ma solida fiducia nella saggezza del gruppo dirigente. E se a Cipputi toccava di rimuginare sulla marcia dei quarantamila o il referendum sulla scala mobile (due cocenti sconfitte per il movimento operaio), Bobo dibatterà invece – con il suo compagno di sezione Molotov, di ascendenze cossuttiane – sulla (ovvia) fine della spinta propulsiva dell’Unione sovietica, o si imbarcherà in quella illusione confusa e tardiva che sarà l’eurocomunismo. Avrà però ragione da vendere, nel criticare dei rivali socialisti anzitutto la degenerazione clientelare e tangentista – che li avrebbe travolti.
Gli sviluppi
Tarlata da quella degenerazione, crollava a inizio anni Novanta la Prima repubblica, crollava un sistema di potere in forze da quasi mezzo secolo. Contemporaneamente si producevano grandi cambiamenti nel partito di Bobo. Abbandonato il comunismo, abbracciato finalmente il socialismo europeo, il neo-nato Pds puntava ormai con decisione al governo del paese: e si scopriva riformista, si scopriva ad approvare o sostenere leggi – dalla riforma storica delle pensioni, che sancì il passaggio dal sistema retributivo al contributivo, a quella del lavoro, fino alle liberalizzazioni e ai tagli al bilancio – che erano in realtà la prosecuzione e l’estensione (ben gestita, certo, consensuale; per certi versi anche più equa) del nuovo corso neo-liberista avviato negli anni ottanta.
Ma Bobo con la sua sciarpa rossa teneva la rotta, c’erano gli avversari per fortuna a convincerlo che non si poteva che avere fiducia in D’Alema e Veltroni: avversari esterni, Berlusconi in primis (lui sì la prosecuzione di Craxi, pensava Bobo, non certo D’Alema!); e interni, a cominciare da Bertinotti, il parolaio rosso che, spaccando la sinistra, aveva rimesso in gioco il centro-destra. Forse mai come nella seconda metà degli anni Novanta, Bobo seppe incarnare speranze e delusioni del popolo dei Ds, sinceramente ancorato al nuovo gruppo dirigente, fiducioso di avere le carte in regola – politiche, culturali, sociali; morali persino – per poter salvare l’Italia e agganciarla all’Europa.
Quel popolo, quella speranza saranno sconfitti. Per cosa, poi? Diatribe interne. Cioè proprio i rovelli di Bobo. Perché il centro-sinistra portò in effetti l’Italia nell’Euro; e perché nel 2001 Berlusconi, Bossi e Fini vinsero sulle divisioni interne di quello schieramento, privato di Rifondazione e Di Pietro. Nella stagione del declino, contro il centro-destra a trazione leghista si ricoalizzeranno tutti, alla fine (anche i radicali); e si indiranno grandi manifestazioni di piazza, forse il canto del cigno del nostro sindacato. Ma nondimeno Bobo apparirà confuso, tormentato, incalzato da una critica alla linea ufficiale – il “con questi dirigenti non vinceremo mai” di Nanni Moretti – mai così centrata, corrosiva. I dirigenti contestati reagiscono, sospinti dalla società civile si decidono a gettare gli ormeggi per dare vita al Pd; e paiono con questa mossa avere messo in scacco, per una volta, gli avversari interni ed esterni.
Bobo naturalmente aderisce al nuovo partito, convinto, lui che è sempre stato un po’ conservatore, che oramai bisogna andare fino in fondo – e che questa sia la (s)volta buona. Sennonché tutto prende a girare vorticosamente. Irrompono i Cinquestelle e alle elezioni del 2013 la classe dirigente di Bobo, che sembrava avere la vittoria in tasca, quasi perde; negli eventi che seguono sbaglia praticamente tutto, finendo per essere spazzata via. Nel volgere di qualche mese, sembra ridotta a definitiva marginalità l’intera tradizione del Pci.
Tutto il resto
Il seguito è attualità. Renzi arriva per salvare il partito democratico e inizialmente sembra pure riuscirci. Ma presto irrompono gli ostacoli, le difficoltà, siamo di nuovo in alto mare. Bobo vuole credere nel nuovo leader, tutto sommato in coerenza con la sua storia. Ma prova pure un po’ di simpatia per quella classe dirigente sconfitta e così rapidamente uscita di scena, non capisce le ragioni di tanto astio fra i democratici contendenti: uno scontro così aspro all’interno del partito non lo si era mai visto, Bobo lo sa e se ne rammarica.
Nel frattempo il suo amico Molotov è tentato dai Cinque stelle i quali, oltretutto, raccolgono pure un bel po’ di consenso fra i giovani. E chissà Cipputi per chi vota. Quel blocco sociale che sosteneva la sinistra si è disgregato da un pezzo e lui Bobo, il tranquillo padre di famiglia, ora appare persino un privilegiato, con il suo bel posto fisso e la pensione garantita. Forse si becca pure qualche impropero. Prevalgono nell’arena pubblica i toni forti, in mezzo a tanto clamare il personaggio di Sergio Staino fa quasi tenerezza, o nostalgia – come si ha nostalgia per le cose buone di una volta (vere o meno che siano). E conforta. Sì, conforta sapere che Bobo, come ultimo principio d’ordine in un mondo impazzito, rimane pur sempre fedele alla linea. Almeno lui. Anche se la linea non c’è.
Questo articolo è stato pubblicato con il titolo Bobo, o la parabola della sinistra su Il Cantautore nel 2016
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