Ci sono gesti che non ho mai compiuto, ma di cui comprendo appieno la sacralità. La guerra l’ho solo sentita raccontare, ma riesco a percepire il silenzio soprannaturale della famiglia di mia madre, raccolta in una stanza, a guardare la radio aspettando che una voce uscisse da lì per diffondere conforto e possibilità.

Molte di quelle parole così attese arrivavano da Bari dove, subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, gli alleati avevano deciso di utilizzare le frequenze della sede Eiar, da tutti conosciuta come Radio Bari, come strumento di lotta.

Ogni sera, intorno alle 23.00, si diffondevano le prime note dell’inno di Garibaldi e le persone all’ascolto sapevano che era il segnale: la trasmissione Italia combatte – il programma radiofonico della Resistenza italiana – stava per iniziare.

La rubrica di Clorinda

Tra gli aggiornamenti e il bollettino della guerra partigiana, le donne aspettavano la rubrica di Clorinda. Perché Clorinda si rivolgeva a loro, e le esortava a resistere combattendo nei modi in cui gli uomini non sapevano combattere. «Credete di non potere fare nulla», diceva, «voi chiuse nel giro della vostra vita consueta, casa e ufficio. Credete. E invece, io vi dico che potete, proprio voi, con il vostro grembiulino nero, davanti alla vostra macchina da scrivere, essere fondamentali come un patriota o un soldato. A voi sono dettate certe lettere che avrebbero, a volte, tutt’altro significato con un piccolo errore di macchina, con una parola saltata, e una data alterata può essere più utile di dieci fucili. Sbagliare un indirizzo è poi ancora più facile. Vi chiediamo un continuo, sordo sabotaggio sotterraneo. Ricordatevi che per essere un patriota è necessario odiare i tedeschi e i fascisti, e voi li odiate, lo so. Ma dovete odiarli dal mattino alla sera, pensando, studiando continuamente il modo di nuocere loro».

Clorinda era lo pseudonimo scelto dalla scrittrice, poetessa e partigiana italiana Alba de Céspedes, voce fondamentale della Resistenza.

La giovinezza

A osservare meglio, le sue origini contengono la rivoluzione nel sangue: il nonno paterno era diventato il primo presidente della Repubblica di Cuba dopo averla liberata dagli spagnoli, per poi venire assassinato nel 1874 dai militari colonialisti. Il padre di Alba è l’ambasciatore cubano in Italia ed è a Roma che incontra colei che diventerà sua madre, donna bellissima e volitiva, una progressista che, insieme al marito, si schiererà fieramente contro il regime fascista.

A Roma, dunque, Alba nasce nel 1911 e cresce in mezzo ai libri e a due genitori che le insegnano a pensare con la sua testa, e a credere solo nella libertà.

Quando Alba ha cinque anni e mezzo, il padre va da lei tenendo in mano un foglietto e, con una faccia seria, le domanda: «Sei tu che hai scritto questa poesia?». Alba, spaventatissima, risponde: «Scusa, papà. Ti prometto che non lo faccio più». E lui sorride mentre le dice «no, lo farai ancora». Perché ha capito che Alba la sua voce l’ha già trovata, ma per farla venire fuori dovranno passare anni in cui lei sarà tutta un’accelerazione per inghiottire il futuro.

A quindici anni sceglie un abito corto con un lungo strascico e si sposa per ottenere la cittadinanza italiana. Il matrimonio con un nobilastro romano è pessimo: l’amore non arriva, ma arriva un figlio nel 1928, e una separazione un paio d’anni dopo.

De Céspedes che vuole essere libera come un uomo, decide di guadagnarsi la sua emancipazione con quello che sa fare meglio: scrivere. Così a ventiquattro anni pubblica la sua prima raccolta di racconti, poi arrivano le poesie.

Osservare le donne

Nei suoi scritti Alba si fa fantasma e spia le donne chiuse nelle loro case, riconosce il rancore soffocato, tramandato di generazione in generazione, per la vita che accade sempre a un passo da loro.

Sono analisi sociali, lucide e spietate. La spietatezza, ovviamente, non è nei confronti delle donne, ma del sistema che le inchioda a un’esistenza nell’ombra, sempre lontane da ciò che vorrebbero e meriterebbero.

Le piace scrivere di notte, mentre tutti dormono, e va a coricarsi quando la vita in casa ha inizio. L’unico problema sono le campane: la chiesa – molto vicina al suo palazzo – è tutto uno scampanio, così lei va dal prete e gli chiede, per favore, di finirla con quel frastuono, e che se proprio deve, le suoni più piano. Il prete le risponde che si deve considerare fortunata: se abitasse attaccata a San Pietro le andrebbe decisamente peggio. Quella contro le campane è l’unica battaglia che de Céspedes non vincerà.

Nel 1938, esce il suo primo romanzo, Nessuno torna indietro: dentro a quelle pagine si muovono ragazze indipendenti e furiose, che scelgono l’autodeterminazione all’amore: sono lontane anni luce dalle mogli e madri esemplari e remissive tanto care al regime fascista, che infatti chiede la censura e il ritiro delle copie per questo libro scandaloso.

Il ritiro viene sventato grazie all’intervento dell’editore e amico Arnoldo Mondadori, e il romanzo riesce comunque a varcare i confini nazionali diventando un bestseller.

Alba è una donna bella, proviene da una famiglia benestante, si mantiene egregiamente da sola e i suoi libri vendono tanto, tantissimo. È in cima alle classifiche, amata dai lettori. Dunque, solo celebrazioni per lei? Ovviamente no. I detrattori la definiranno con sprezzo una «scrittrice per signore», eppure quelli che verranno sminuiti – a torto – come dei romanzetti rosa di poca cosa, saranno in realtà dei taglienti scritti politici. D’altronde, ancora oggi è piuttosto difficile per una certa critica ammettere che chi vende tanto, spesso è anche altrettanto bravo.

Nel frattempo de Céspedes viene arrestata con l’accusa di antifascismo: Alba è una militante cresciuta seguendo unicamente l’idea di libertà, e il carcere non la spaventa. Uscita di prigione, cominciano per lei i viaggi: arriva a Cuba, dove annota continuamente sui suoi quaderni il mondo che la circonda, e il suo è un mondo fatto di donne. Scrive infatti: «Io sono per tutti gli oppressi, e le donne lo sono state per secoli. Ne faccio una questione di razza: per me le donne sono una razza oppressa e per questo sto dalla loro parte».

Tornata in Italia, all’annuncio dell’armistizio lascia Roma con il suo compagno, il diplomatico Franco Bounous, che sposerà alla fine della guerra: trovano riparo in Abruzzo prima di riuscire a raggiungere Napoli e infine Bari, dove nasce Clorinda. 

Cadere nel pozzo

Nel settembre del 1944, fonda nella Roma appena liberata dai tedeschi la rivista letteraria Mercurio. Mensile di politica, arte e scienza: scrivono per lei Alberto Moravia, Ernest Hemingway, Sibilla Aleramo e Natalia Ginzburg.

È con quest’ultima che, sulle pagine della rivista, nasce un meraviglioso carteggio sulle donne e, soprattutto, sugli abissi in cui così spesso sprofondano. Scrive Ginzburg: «Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne. Spesso si vergognano d’avere questo guaio, e fingono di essere energiche e libere, e camminano a passi fermi per le strade con bei vestiti e bocche dipinte e un’aria volitiva e sprezzante; ma a me non è mai successo d’incontrare una donna senza scoprire dopo un poco in lei qualcosa di dolente e di pietoso che non c’è negli uomini, un continuo pericolo di cascare in un gran pozzo oscuro, qualcosa che proviene proprio dal temperamento femminile e forse da una secolare tradizione di soggezione e schiavitù e che non sarà tanto facile vincere…».

E de Céspedes risponde. «Anche io, come te e come tutte le donne, ho grande e antica pratica di pozzi: mi accade spesso di cadervi e vi cado proprio di schianto. Figurati, dunque, se non ho apprezzato ogni parola del tuo scritto. Ma – al contrario di te – io credo che questi pozzi siano la nostra forza. Poiché ogni volta che cadiamo nel pozzo noi scendiamo alle più profonde radici del nostro essere umano, e nel riaffiorare portiamo in noi esperienze tali che ci permettono di comprendere tutto quello che gli uomini ­– i quali non cadono mai nel pozzo – non comprenderanno mai. È questo il difetto degli uomini, a parer mio: quello di non abbandonarsi mai totalmente. Sicché a volte io penso con affettuosa compassione che essi non abbiano pozzi in cui cadere e quindi non possano mai venire a contatto immediato con la debolezza, i sogni, le malinconie, le aspirazioni, e insomma tutti quei sentimenti che formano e migliorano l’animo umano e che pesano anche sulla vita dell’uomo più conforme al modello virile.

Tu non lo dici, ma certo lo pensi: sono sempre gli uomini a spingerci nel pozzo, magari senza volerlo. Ti è mai accaduto di cadere nel pozzo a causa di una donna? Escludi naturalmente le donne che potrebbero farci soffrire a causa di un uomo, e vedrai che, se vuoi essere sincera, devi rispondere di no. Le donne possono farci cadere nell’ira, nella cattiveria, nell’invidia, ma non potranno mai farci cadere nel pozzo. Ogni donna è pronta ad accogliere e consolare un’altra donna che è caduta nel pozzo: anche se è una nemica. Sì, devi ammetterlo, sono proprio gli uomini a spingerci nel pozzo. I figli pure sono uomini, e i fratelli, i padri; ed essi tutti con le loro parole, e più ancora con i loro silenzi, ci incoraggiano a cadere nel pozzo “smemorante” ove loro non possono raggiungerci e noi possiamo esser sole con noi stesse.

Ma quale dei due è fatto meglio? Chi scende nel pozzo, ad esempio, conosce la pietà. E come si può vivere, agire, governare con giustizia senza conoscere la pietà?».

L’inganno

Nel pozzo cadono anche le donne raccontate da de Céspedes nel suo romanzo da me più amato: Dalla parte di lei, ripubblicato da poco in una bella edizione per gli Oscar Mondadori.

La protagonista, Alessandra, cresce in uno di quei grandi palazzi di Roma affacciati sul Tevere che sembrano abitati solo da donne.

A spiare quei cortili, a entrare in quegli androni, sembrano loro le uniche a muoversi infinite volte al giorno per quelle scale, trasportando incombenze e lucidando il legno della ringhiera con il loro rancore.

Sono sconosciute le une alle altre, eppure coese: insieme covano la medesima collera, cuocendo cibi che ribollono frustrazione. Scrive de Céspedes: «Nel cortile le donne vivevano a loro agio, con la dimestichezza che lega coloro che abitano un collegio o un reclusorio. Ma tale confidenza, piuttosto che dal tetto comune, nasceva dal fatto di conoscere reciprocamente la faticosa vita che conducevano: attraverso le difficoltà, le rinunce, le abitudini, un’affettuosa indulgenza le legava, a loro stessa insaputa».

Le ragazze sono le uniche a divorare i gradini veloci come fulmini, credono di andare verso l’amore e cuciono corredi, lavorano, risparmiano, mettono da parte pizzi e vagheggiamenti di felicità, ma si ritroveranno anche loro preda di un inganno.

È l’amore che sgocciola dalle tubature di quei palazzi, e gli uomini nemmeno lo immaginano. Credono invece che le donne se lo siano dimenticato, l’amore. Che l’abbiano sostituito con i rammendi, la cura dei figli e il diritto a rivendicare lo stato di “padrone” di una casa. Ma le donne invece lo cercano altrove, si coprono a vicenda e le vecchie non tradiscono le giovani che ancora possono arraffare qualche briciola di sentimento in giro. Sanno che «la legge non pensa mai ai sentimenti delle donne», così ci pensano loro.

Scrive de Céspedes: «Eravamo, mi pareva, una specie gentile e sfortunata. Attraverso mia madre, e la madre di lei, e le donne delle tragedie e dei romanzi, e quelle che s’affacciavano nel cortile come alle sbarre della prigione, e le altre che incontravo in strada e che avevano occhi tristi e ventri enormi, sentivo pesare su di me una secolare infelicità, una inconsolabile solitudine».

La solitudine non abbandona mai Alessandra, nemmeno con il matrimonio. Per Alessandra, la Resistenza è innanzitutto una questione privata: il marito è un professore universitario antifascista e partigiano, e lei vive il tempo dell’attesa non tanto per la fine della guerra, ma per ritornare ad avere ciò che le spetta: l’uomo che ha sposato, e che era innamorato di lei.

Una sera, trova il coraggio di chiedergli: «Perché mi hai ingannata?». E lui la rimprovera «tu aspetti sempre da me quello che tu faresti al mio posto». Così lei inizia a tradirlo, ogni giorno, con l’immagine sognata che ha di lui, sapendo che «in tutte le case di Roma, in tutte le case del mondo, vedevo le donne sveglie nel buio, dietro l’invalicabile muro delle spalle maschili. Bisognava rassegnarsi a essere sole, dietro il muro, e stringerci tra noi, sorreggerci, formare un grumo di sofferenza e di attesa».

Alessandra passeggia in una Roma spettrale: San Lorenzo è deserta, un odore di carne bruciata satura l’aria perché le bombe hanno colpito anche una scuderia dove si trovavano i cavalli dei trasporti funebri. Durante le ore, i giorni in cui si scavava anche con le mani, i cavalli avevano nitrito disperati, e poi a un certo punto, tutto era diventato solo morte.

Tornata da quella passeggiata, Alessandra sparerà al marito, e con quel proiettile vendicherà tutte le donne che, durante la guerra, avevano davvero creduto che le cose sarebbero cambiate. «L’uomo che la mia protagonista uccide – racconta de Céspedes – dagli estranei poteva essere giudicato un marito perfetto, ma col suo contegno indifferente, con l’incomprensione dei sentimenti, degli stati d’animo e delle aspirazioni la uccideva giorno dopo giorno, e compiva così, impunito e anzi difeso dalla legge, un lento delitto morale».

Conflitti di oggi

Idealmente, abbiamo tutte fatto fuoco contro gli invalicabili muri delle spalle maschili. Continuiamo a farlo, anche senza guerra. Perché le cose non sono ancora cambiate. Dalla parte di lei sarà anche il titolo della rubrica che de Céspedes terrà su Epoca, dopo la chiusura di Mercurio.

Viaggerà molto, Alba: Cuba, ovviamente, poi gli Stati Uniti, dove seguirà il marito (primo Segretario all’ambasciata d’Italia, a Washington), infine Parigi, e ovunque trasporterà la sua immensa libreria.

A Parigi, nel 1997, Alba morirà a ottantasei anni, otto giorni dopo aver donato tutte le sue carte e documenti agli Archivi Riuniti delle Donne. Non immagino posto migliore per accogliere i pensieri di chi, per tutta la vita, ha scritto di noi, anche se diceva: «Si è sempre pensato che io abbia voluto scrivere per le donne. Io non voglio avere questo merito. Io ho sempre osservato una condizione, ho osservato una società, soprattutto una società in un’epoca con le norme che la regolavano e quindi i disagi e le sofferenze che procuravano i conflitti del nostro tempo».

I conflitti del suo tempo non sono diversi dai conflitti del nostro tempo. Per questo, rileggere Alba de Céspedes è un modo per ricordarci che tutte possiamo contribuire a ribaltare ruoli sociali e stereotipi. Perché è ancora e sempre necessario.

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