«La vita nel silenzio degli organi». Così negli anni Trenta il medico francese René Leriche, pioniere di una chirurgia sensibile all’esperienza individuale del dolore, definiva la salute. Non si allontanava da un precedente illustre come Diderot, per il quale essa significava non avvertire i «movimenti della vita»: quando stiamo bene, nessuna parte del corpo ci ricorda della sua esistenza, tutte le funzioni si svolgono nel più rassicurante anonimato. La nostra vita appare quindi tutta giocata su un fondamentale paradosso.

Come scriveva Marcel Proust, «non viviamo soli ma incatenati a un altro essere di una specie differente dal quale ci separano degli abissi, un essere che non ci conosce, e dal quale è impossibile farci capire». Ma è vera anche la prospettiva inversa: il corpo che noi siamo è qualcosa che non conosciamo davvero, di cui non sappiamo e non desideriamo sapere nulla, e che impariamo a scoprire solo quando diventa un impedimento ai nostri progetti.

Commentando la formula di Leriche nel suo capolavoro del 1943, Il normale e il patologico, l’epistemologo Georges Canguilhem paragonava la salute a una sorta di “innocenza organica”, che, come ogni innocenza, deve essere perduta per acquisire una conoscenza superiore.

Nello stesso anno, Jean-Paul Sartre lo diceva con altrettanta chiarezza, anche se da un altro punto di vista: il corpo è il primo ostacolo da oltrepassare per diventare noi stessi e realizzarci. Lo sa l’atleta che vuole migliorare una prestazione, il giovane disforico o dismorfofobico, chiunque debba fare i conti con diagnosi, terapie e referti.

Oppure pensiamo all’esperienza del filosofo Jean-Luc Nancy, che dopo un trapianto cardiaco scrisse di come la più familiare delle sensazioni, il battito del suo cuore, gli apparisse ora sotto il segno di una radicale alterità. Il corpo è qualcosa che abitiamo già da sempre, indice della nostra presenza nel mondo, e tuttavia, con buona pace dei critici di Descartes, è anche una dimensione in cui ci imbattiamo come per caso, di cui dobbiamo occuparci come se fosse un patrimonio ereditato e che non abbiamo chiesto.

Nel rumore degli organi

Non si può leggere un libro bellissimo come quello che lo psichiatra Vittorio Lingiardi ha dedicato al corpo – Corpo, umano (Einaudi) – senza tenere a mente questa relazione di intimità ed estraneità che ci lega alla carne. Il titolo dice tutto, con una virgola eloquente a far pesare e rimarcare la distanza enigmatica che avvertiamo rispetto a questo «prodigio luminoso e oscuro del nostro vivere». Riprendendo la formula di Leriche, si può dire che le pagine di Lingiardi raccontano la vita nel rumore degli organi, che qui si animano, prendono la parola e si lasciano interrogare per gli enigmi che sono.

Ad esempio la pelle, microcosmo, autentica «carta geografica emotiva», immagine della soglia per eccellenza. Oppure il seno, oggetto transizionale, icona scandalosa e rivoluzionaria, generatore mitologico di galassie. O ancora l’orecchio, con la sua incredibile struttura, a cui dobbiamo stabilità, apertura al mondo o isolamento, rivelazioni bibliche, sintonie, accordi, fino a percezioni immaginarie e sbandamenti.

E poi cuore, occhi, polmoni, mani, genitali, fegato, sangue, cervello e via di seguito: come nell’inventario del body electric cantato da Walt Whitman, poeta che è il padre spirituale dell’indagine di Lingiardi, ciascun organo ha la sua storia, un immaginario peculiare, è una costellazione di valenze cliniche, artistiche, filosofiche, religiose, politiche.

Un simbolo

Scorrendo questo catalogo, viene in mente uno scritto di Paul Valéry, Riflessioni semplici sul corpo, sempre dell’anno mirabile 1943, dove il grande poeta francese si chiedeva quanti corpi avessimo davvero. Ne individuava tre, più uno. C’è il corpo proprio e vissuto, la «sostanza della nostra presenza», che percepiamo ma di cui non conosciamo la forma intera; il corpo esteriore, mostrato, visto dagli altri, abbigliato, ritratto, rivelato da specchi e fotografie; infine il corpo oggetto della scienza, indagato e operato, smembrato e ricomposto nelle tavole anatomiche.

Ma a questi bisogna aggiungere, secondo Valéry, un «quarto corpo», l’unità insondabile di tutti i punti di vista precedenti, che è in fondo il mistero stesso della corporeità. Valéry suggerisce dunque che il corpo sia prima di tutto un simbolo, un sistema di relazioni: connette l’interno e l’esterno, l’esperienza vissuta e la sua rappresentazione, l’invisibile e il visibile, il microcosmo dello spirito e il macrocosmo della natura. E, come ogni simbolo, anche il corpo va interpretato e compreso.

Nessuno lo sa meglio di chi, come Lingiardi, traffica per mestiere con i disagi della psiche. Che cosa sono infatti la psicoanalisi o la psicoterapia se non arti di decifrare gli infiniti linguaggi di un corpo che si rifiuta di tacere, che diventa un teatro di sintomi, un geroglifico di manifestazioni patologiche dietro cui si nascondono desideri sommersi, volontà di trasformazione e rinascita, spettri di un passato traumatico che insistono inaffrontati?

Ci sono tanti corpi quante sono le esistenze individuali, e anche questo libro, dove affiorano qui e là ricordi autobiografici, dimostra che la vita può essere ripercorsa come un diario organico, una cronaca di membra, organi, dettagli fisici propri e altrui, ognuno protagonista di vicende irripetibili.

Ritrovato e raccontato

Lingiardi non offre facili soluzioni all’enigma del corpo. L’epoca odierna sembra volerne fare a meno, virtualizzandolo, oggettivandolo, mediandolo con infiniti schermi. Ma la verità è che non c’è nessun sapere originario del corpo, nessuna immediatezza semplice a cui ritornare. Per rientrare in contatto con la corporeità si può solo narrarla, nelle sue metamorfosi, nelle sue impasse, nei suoi inciampi: «L’unico modo per ritrovare un corpo, anche un corpo fantasma, perduto, stanco di sé o del mondo, è raccontarlo».

La nostra carne è una storia, i nostri organi una sinfonia di voci. Perfido e traditore, come lo descriveva Guido Ceronetti, il corpo «fa sorrisi alla vita ed è un sicario della morte». Lingiardi ne offre un ritratto meno perentorio: «È un laboratorio alchemico capace di apparizioni infinite: è anatomico, fisiopatologico, etnologico, sociale, politico, religioso, artistico, estetico, sensuale, nudo, vestito, danzante, sessuale, maturo, giovane, anziano, piccolo, grande, energico, debole, stanco, malato, sufficientemente sano».

Si può vivere l’energia a intensità variabile della carne come una condanna. Ma c’è un’alternativa: sia che taccia sia che si faccia sentire, che ci assecondi o ci tradisca, il corpo ci ricorda che non coincidiamo mai con noi stessi, e che nella materia di cui siamo fatti c’è una complessità anonima che non possiamo addomesticare e che sa cose che ignoriamo, un testo aperto che si scrive e si riscrive continuamente, sfidando l’orgoglio del nostro sapere, inchiodandoci alla singolarità che ci definisce.


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