La tecnologia continua a cambiare la nostra vita e così cambia anche il nostro rapporto con la morte. Nel libro Still online, la giornalista Beatrice Petrella indaga le nuove frontiere del lutto, fra cimiteri virtuali e intelligenze artificiali che riportano in vita i defunti. Con una domanda di fondo: siamo pronti a superare il più grande tabù della nostra società?
«Nell’ottobre 2010 l’icona di Msn di mio padre è diventata verde. È tornato online. Tutto normale, non fosse che mio padre era morto da tre mesi. Quella piccola icona trasparente, diventata verde forse a causa del tecnico che formattava per l’ultima volta il suo computer, me la ricordo come fosse ieri, anche se ormai sono passati quattordici anni».
Inizia così il libro della giornalista Beatrice Petrella, Still Online, appena uscito per Piemme. Parte da una storia personale, ma che riguarda un po’ tutti: che fine farà la nostra identità digitale, quando non ci saremo più? E soprattutto: il digitale sta cambiando il nostro rapporto con la morte?
La morte invisibile
È un tema che fino a poco tempo fa veniva nascosto, perché finiva oscurato da quel grande tabù che la società occidentale ha per questo argomento. Della morte non si può parlare: anche se è la certezza più solida che ci accompagna nella vita.
Così, quando all’improvviso irrompe nella nostra quotidianità, prima o dopo, ci trova quasi sempre impreparati. È come se fosse un rito di iniziazione, in cui la morte cambia il suo stato e da tabù diventa una realtà da affrontare. A volte da soli. «Il nostro modo di stare al mondo cambia quando viviamo un lutto», scrive Petrella. «Tutte le volte che è venuto a mancare qualcuno a cui ho voluto bene, mi è sempre sembrato che le frasi di circostanza non fossero abbastanza».
Eppure oggi la morte è molto più visibile, anche se ci ostiniamo a non farci caso. La troviamo nei libri e nelle serie tv che affrontano il tema. O sui social network, nei podcast e nelle newsletter, scritti talvolta da chi sta cercando di affrontare il lutto e si ribella a quel tabù che lo vorrebbe richiudere in un’esperienza in solitudine.
Ma non c’è solo questo: c’è anche l’aspetto più traumatico degli alter ego digitali che continuano a vivere, anche dopo la morte. È una sorta di “immortalità passiva”, che ognuno di noi un giorno potrebbe sperimentare, alla morte di un genitore o di un amico.
Il fatto che continueremo a ricevere, ogni anno, una notifica di Facebook che ci inviterà a fare loro gli auguri: «Rendi speciale questo giorno». In un certo senso, rimarremo connessi anche dopo la morte.
Connessi oltre la morte
Tutto questo ha ovviamente delle implicazioni diverse, e riguarda anche aspetti fortemente emotivi: il fatto che i social network rischiano di diventare grandi cimiteri virtuali, dove rimangono apparentemente vivi anche coloro che non ci sono più. Facebook, e in genere anche gli altri social network, già permettono di nominare un contatto erede. Qualcuno che potrà diventare proprietario dei miei dati quando sarò morto. Nel caso, sarà lui a decidere se mantenere un profilo “in memoria” o cancellarlo.
Eppure, è molto più frequente che il grande iato che riguarda la vita reale non si reverberi uguale anche nel virtuale. Ovvero, le tracce di chi è morto sopravviveranno in forma digitale. I vari account, protetti dalle password, continueranno a esistere, in attesa che ci sia un oblio tecnologico, se mai ci sarà.
Ma c’è pure un altro aspetto che riguarda la tecnologia: l’intelligenza artificiale è già in grado oggi di creare perfetti cloni di ognuno di noi. Ci abitueremo, un giorno, a chattare con i cloni digitali dei nostri nonni, per tenere in vita il loro ricordo? Sembra uno scenario distopico perfetto per una serie tv come Black Mirror, ma non è troppo distante dalla realtà.
Di tutto questo Petrella ha iniziato a parlare in un podcast, prodotto da Storytel. E ora nel libro, che riprende e amplia quelle riflessioni, che parte proprio da questa considerazione: «Più la tecnologia andrà avanti e più inventeremo modi creativi per fare i conti con quello che sembra essere rimasto l’ultimo tabù della nostra società: morire».
Il punto di partenza di Still online è molto personale. Racconta il trauma di rivedere online suo padre, poco dopo la sua morte.
Non avrei questo interesse particolare per la morte e per il lutto, se non lo avessi vissuto in prima persona. Però ho scoperto che quello che è successo a me è profondamente diffuso. Durante la mia adolescenza, ho visto tanti profili abbandonati sui social da persone, anche molto giovani, che non c’erano più. L’idea dell’online che sopravvive all’offline credo sia molto interessante, perché in un certo senso siamo nel pieno di una distopia. E più andiamo avanti, e più questa distopia diventa reale: ci sono sempre più piattaforme e sempre più spazi dove lasciamo traccia di noi. E queste tracce ci sopravvivono.
Questo è fortemente legato anche al modo inconsapevole in cui cediamo i nostri dati. E forse questo è un tema che riguarda ognuno di noi in vita, al di là della morte, non crede?
Esatto, siamo troppo abituati a usare i nostri dati con leggerezza. Ma questo discorso ha implicazioni maggiori quando tocca la morte. E questo perché è un tema che ci riguarda tutti, ma di cui non vogliamo parlare. Questo porta a molte conseguenze, anche giuridiche. La legge si occupa poco dell’eredità digitale.
Da questo punto di vista, l’intelligenza artificiale apre anche altre questioni. Lei che idea si è fatta?
La mia impressione è che Black Mirror sia semplicemente un passo avanti rispetto alla realtà. Il potenziale per un’intelligenza artificiale che dia vita ai morti c’è già e lo abbiamo già visto, anche con casi molto pop, come il padre di Kim Kardashian riportato in vita con un ologramma da Kanye West nel 2020. Allora sembrava una cosa molto lontana, da eccentrici miliardari: ora invece è sempre più alla portata di tutti. Io però non mi sento di giudicare. Quello che penso è semplicemente che stiamo vivendo una fase di transizione. Forse fra cent’anni diventerà normale conversare con il bot della nonna.
E ci sono modi in cui il digitale sta aiutando a superare il tabù per la morte, soprattutto nelle generazioni più giovani?
Sì, in effetti il rapporto con la morte sta cambiando e in qualche modo sta anche migliorando. Io faccio sempre l’esempio di grieftok, che è l’hashtag di TikTok dedicato al lutto, dove ci sono persone di tutte le età – ma soprattutto persone molto giovani – che raccontano apertamente la loro esperienza. Questo ha ovviamente molti risvolti negativi, per come funziona la piattaforma. Ma se ci concentriamo sugli aspetti positivi, quanto meno se ne parla: stiamo iniziando ad avere conversazioni più aperte su un tema che era proibito. Non credo che questo faciliterà il rapporto con la morte, sarà sempre uno scontro, non un incontro. Ma quanto meno aiuterà a sentirsi meno soli quando capiterà.
Cosa spera che lasci il suo libro a chi lo leggerà?
Intanto, se una persona non ha mai vissuto un lutto, spero che possa trovare comunque degli spunti di riflessione. Ma poi vorrei che fosse soprattutto un contributo al dibattito su come interagiamo con la tecnologia e come questa influenzi molti aspetti della nostra vita. Compresa la morte.
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