La galassia del tifo organizzato è a tutti gli effetti da considerarsi una sottocultura, con i suoi codici, i suoi riti, il suo senso di comunità, «una cultura antiautoritaria – spiega James Montague nel suo libro Fra gli ultras – viaggio nel tifo estremo. tradotto in Italia da 66thand2nd. Come uno sport che nasce popolare ha scelto di diventare elitario. Il caso Germania. Il motto di Brema: «La società detta certe regole e noi le infrangiamo».
Uno degli interventi più lucidi sulla questione israelo-palestinese è firmato Curva Fiesole, ovvero gli ultras della Fiorentina che in occasione della sfida contro il Maccabi Haifa si sono espressi così: «In questa Conference League, la sorte ci ha messo davanti una squadra che viene da un paese che si dice “in guerra”, ma che in realtà sta massacrando una popolazione civile, inerme. [...] Ricordiamo che le squadre di calcio appartenenti alla Federazione Russa sono escluse dalle competizioni Uefa a seguito della guerra in Ucraina. La Uefa, dall’alto dei principi morali che si vanta di sostenere, non ha nulla da dire sul massacro in corso in Palestina?».
Pochi giorni dopo, a Padova, gli ultras del Catania hanno prima sfondato il cancello del proprio settore e poi raggiunto la tribuna occupata dalla tifoseria veneta per lanciare fumogeni e distruggere striscioni. Alcuni hanno invaso il campo lanciando petardi. La polizia, dopo una serie di cariche, ha portato via una decina di persone.
Il punto è: di cosa parliamo quando parliamo di ultras? Se lo è chiesto James Montague, giornalista e scrittore inglese, collaboratore – tra gli altri – di New York Times e BBC, in un volume pubblicato in Italia da 66thand2nd: Fra gli ultras – viaggio nel tifo estremo. Perché in fondo è proprio questo il tema centrale nella narrazione delle tifoserie organizzate: in pochi si sforzano di capire la complessità di un fenomeno pieno di sfumature, contraddizioni, splendori e miserie. E Montague, nel suo giro del mondo a contatto con le curve più influenti e pericolose del pianeta, parte proprio da questo assunto: «Per capire il mondo dobbiamo conoscerlo per quello che è e non per come lo vorremmo, per quanto spiacevole possa risultare».
I codici e i riti
Prima di tutto la galassia ultras è a tutti gli effetti da considerarsi una sottocultura, con i suoi codici, i suoi riti, il suo senso di comunità, «una cultura antiautoritaria – spiega Montague - contraria alla commercializzazione del calcio [...] e che ha sviluppato una rete internazionale di amicizie e rivalità, un suo codice d'onore e un profondo senso di solidarietà». Non a caso ha intercettato spesso altre culture (sarebbe meglio dire controculture) con valori comuni e confinanti, come ad esempio quella punk, con la quale da sempre c'è un’intensa osmosi. Iconica in Italia la parabola di Marco Philopat, protagonista assoluto della scena punk milanese degli anni ’70 e ’80, che nel suo Il pirata dei navigli (Bompiani) racconta anche il periodo di militanza tra gli ultras del Milan.
Montague affronta l’argomento con l’incedere di un romanzo d’avventura, quasi una discesa agli inferi la sua, con un Virgilio diverso ad aprirgli le porte a seconda che si tratti del Sudamerica, dei Balcani, della Turchia, dell’Italia o della Germania – porte di mondi che spesso flirtano con i nazionalismi più spinti, con la criminalità organizzata più spietata, ma anche con forme di resistenza civile e solidarietà così pure e disinteressate da risultare commoventi.
Se i partiti si sono disgregati, se la società contemporanea ha perso il valore di ritrovarsi in piazza, il calcio e il tifo organizzato sembrano essere le ultime forme comunitarie di massa, l’ultima eredità di un Novecento sempre più annacquato, sempre più diluito, in larga parte estinto. Ma persino la profezia di Pasolini – «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo» – rischia di avere i giorni contati.
Sullo sfondo del suo racconto Montague illustra la deriva del calcio europeo, che sta sradicando il tifo organizzato dalle curve di molti paesi. Con il pretesto di combattere la violenza, sulla scorta del cosiddetto modello inglese – con stadi perfetti puliti e accoglienti, posti a sedere obbligatori, prezzi dei biglietti alle stelle – si è cominciato a gentrificare il calcio. Quella vibrante forma di «tribalismo cittadino» che prima dei diritti televisivi ha alimentato per decenni il business dei club, viene soppiantata da un pubblico di ricchi consumatori. Uno sport che nasce popolare ha scelto di diventare elitario, credendo così di proteggersi ma andando incontro, in realtà, a una crisi di valori che ne mette persino in dubbio la sopravvivenza nel medio-lungo termine, a causa di una costante e inesorabile emorragia di fruitori.
Il caso Germania
Nel suo excursus tra colori fumogeni e coreografie, tradizioni stupore e violenza, Montague intreccia politica e società, storia e costume. Colpisce il ritratto del tifo tedesco, che come nessun altro conserva certi antichi retaggi anche in virtù del modello comunemente detto 50+1, in vigore dal 1998. Le quote di maggioranza dei club professionistici devono essere di proprietà dei soci, ovvero dei tifosi. I privati non possono andare oltre il 49 percento. Norma che di fatto chiude le porte ai grandi fondi di investimento esteri, radicando le squadre nei territori, alimentando l’attaccamento dei tifosi e una folta presenza di pubblico negli stadi.
«Oggigiorno la Germania può probabilmente vantare la cultura ultras più politicamente attiva e influente», al punto che il calcio tedesco ha dovuto abolire i posticipi del lunedì in seguito ad alcune clamorose proteste: i tifosi tutti odiano il lunedì, gli ultras in particolare perché rendono le trasferte quasi impossibili per chi lavora. È per questo che i tifosi dell’Eintracht Frankfurt «lanciarono in campo migliaia di palline da tennis, e in seguito sommersero una delle porte di carta igienica. Alla fine venne deciso che non valeva la pena affrontare tutti quei disagi per le partite del lunedì sera». Ma la storia recente del calcio tedesco è politicizzata anche nel senso più stretto del termine, con lotte serrate all’interno delle tifoserie per far prevalere un’ideologia piuttosto che un’altra. Sono molte, forse la maggior parte, le curve inclusive che propugnano messaggi antiomofobi, antirazzisti, antifascisti, fronteggiando fronde interne di violenti neonazisti sia con le buone che con le cattive.
E l’Italia? Da «Harvard del tifo» degli anni ’80 e ’90 attraversa il declino indicato dal modello inglese: vagonate di soldi dall’estero e repressione sugli spalti. Da noi oltretutto si pone una questione che va oltre il mondo ultras e riguarda più in generale la gestione del dissenso. A Cagliari un tifoso è stato identificato e allontanato dalla Digos con un certo vigore: si rifiutava di ritirare la bandiera della Palestina esposta in Curva Sud. A Milano, Teatro alla Scala, è stato identificato uno spettatore per aver gridato «Viva l’Italia antifascista». A Pisa i ragazzini sono stati pestati in piazza con una ferocia inaudita. In via Acca Larentia, a Roma, una masnada indisturbata di fascisti ha esibito tutto il repertorio dell’iconografia più autoritaria, violenta e liberticida della nostra storia.
Dalle curve alle piazze, oggi in Italia, sembra chiaro chi ha diritto a esprimersi e chi no; al punto che verrebbe da fare proprio il motto di Ben, leader della tifoseria organizzata di Brema: «Gli ultras sono, e probabilmente saranno sempre, questo: la società detta certe regole e noi le infrangiamo».
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