- Ogni elezione, nel nostro paese, segna un momento catartico e di rivalsa da parte delle organizzazioni private note come partiti, che si contendono l’accesso alla stanza dei bottoni promettendo un cambiamento epocale rispetto al passato.
- Quello che colpisce ancor più è la propensione degli elettori a prosciogliere da ogni responsabilità gli autori (o i perpetratori) delle scelte compiute.
- Nel paese con oltre il 150 per cento di rapporto tra debito e Pil, che aumenta spontaneamente in conseguenza della crescita inferiore al costo del debito, l’obiettivo è quello di recuperare soldi e lanciarli al popolo stressato.
Ogni elezione, nel nostro paese, segna un momento catartico e di rivalsa da parte delle organizzazioni private note come partiti, che si contendono l’accesso alla stanza dei bottoni promettendo un cambiamento epocale rispetto al passato.
Nulla di inedito né di particolarmente esecrabile. Semmai, quello che colpisce è la capacità davvero non comune di farsi scivolare addosso le responsabilità per gli atti del passato, compiuti durante la propria permanenza nella stanza dei bottoni.
Ma quello che colpisce ancor più è la propensione degli elettori a prosciogliere da ogni responsabilità gli autori (o i perpetratori) delle scelte compiute.
«Non eravamo soli, c’è la logica di coalizione, siamo stati costretti ad accettare per evitare conseguenze peggiori», e la variazione sul tema: «Non abbiamo il 50 per cento più uno dei voti», col sottinteso colpevolizzante per gli elettori: «È soprattutto colpa della vostra irresolutezza se non vi abbiamo regalato il paradiso, quindi vedete di non lamentarvi troppo».
Per una breve e futile stagione, in questo paese è andata di moda la verifica della veridicità o almeno della verosimiglianza di promesse e affermazioni dei politici.
Si è persino creato un embrione di professione, quella dei fact checker, da cui si è prontamente generata la variante più arcigna, quella del debunker. Cioè di colui che, investito di superiore capacità di analisi di dati e situazioni, mostra cartellini di vario colore all’affabulatore di turno.
Prima di riuscire a darsi un’organizzazione corporativa “comme il faut” in questo paese di ordini professionali, con tanto di esami di stato e commissione etica, questi nuovi profili professionali sono caduti vittime del sistema. Tutto cominciò con le partecipazioni ai talk show televisivi, a spalti contrapposti e dove la bipolarizzazione regna sovrana.
Tutto cominciò con Gianfranco Funari e le sue creazioni televisive, Torti in faccia e Aboccaperta. Nessuna mediazione centrale e centrista, solo polarizzazioni e copioso lancio di droplet di saliva verso la tribuna avversaria.
Da allora non ci siamo più fermati e anzi, il format è rapidamente evoluto sino alle trasmissioni di “approfondimento”, di solito condotte da un iscritto all’Ordine dei giornalisti, spesso con pubblico in sala che applaude quasi ritmicamente all’una e all’altra istanza, con una regolarità che mi ha sempre fatto pensare a lievi scariche elettriche inflitte al pubblico per indurlo a tale equanime sincronismo.
È qui, fatalmente, che si è compiuto il destino di fact checker e debunker. Rapidamente risucchiati nella bipolarizzazione e nel guelfo-ghibellinismo e altrettanto rapidamente accusati di essere in realtà quinte colonne dell'avversario, spesso con “dimostrazione” della strumentalità delle posizioni da essi assunte per confutare la tesi del politico di turno.
Tristemente rottamata anche la possibilità di creare in questo paese un nuovo ordine professionale, non prima di aver fornito al debunker il numero di telefono dell’agente degli acerrimi nemici di talk «così, in caso volesse essere dei nostri, perché lei buca il video, le garantisco», il wrestling si è rapidamente spostato ad altro momento, quello autenticamente rivoluzionario del manifesto politico.
Non aggiustamenti al margine, cioè cose tipo un po’ meno tasse qui, un po’ più di spesa là ma sempre in dosi incrementali; no, veri e propri cambi di regime, sempre rigorosamente con fiumi di caffelatte e montagne di marzapane.
Regalare soldi
Nel paese con oltre il 150 per cento di rapporto tra debito e Pil, che aumenta spontaneamente in conseguenza della crescita inferiore al costo del debito, l’obiettivo è quello di recuperare soldi e lanciarli al popolo stressato.
E qui entra in gioco quella assai peculiare forma di nazionalismo che caratterizza il nostro paese: il nazional-vittimismo. Il mondo cospira contro di noi, sono invidiosi perché noi abbiamo sole, mare, pizza e loro manco il bidet, esponenti di aride culture inferiori. “Ragionieristiche”, credo dicano i cultori del nostro neo-umanesimo.
Noi abbiamo la gioia di vivere e del buon vivere, loro sono tristi. Soprattutto, dentro i confini dell’Unione europea, grande è il desiderio di vedere la Penisola schiava di popolazioni di discendenza barbarica. Da questa epica lotta discende la pugnace postura dei nostri politici “verso Bruxelles”, capitale del regno barbarico-invidioso.
«Andiamo a battere i pugni sul tavolo» è la frase pronunciata da innumerevoli nostri eletti e aspiranti tali, praticamente in tutto lo spettro partitico. In un’altra era geologica c’è pure chi ha messo il concetto in musica, proprio in occasione dell’elezione del parlamento europeo, nel 2014.
Alla fine, il concetto è uno solo: «Datece li sordi», detto nell’idioma erede della Città Eterna, «perché noi valiamo», come recita il claim pubblicitario di nota azienda, non a caso operante nella cosmetica. Che sia la Banca centrale europea a dover stampare moneta o che s’invochi l’emissione di debito comune, cioè pagato dai contribuenti di tutta l’Unione e assegnato al nostro paese in base a parametri che ne certificano il declino e quindi il bisogno di aiuti, da noi è tutta una gara a rivendicare meriti per queste erogazioni e chiederne di altre, con condizioni le più lievi possibili, perché non sia mai che un paese orgoglioso come il nostro debba sottostare a ricatti stranieri.
Questa cascata di tonificante denaro serve a rigenerare la nazione la cui capitale ha dato i natali alla civiltà europea, e impedire che la storia della sua caduta per mano di barbari con sandali e calzettoni si ripeta.
Acquisite le risorse, il dibattito politico, anche fuori dalla pugna elettorale, si concentra di solito sul concetto di bonus, altro grande topos della nostra agorà. Ci sono bonus per tutto e un altro claim pubblicitario alla bisogna: «Immagina, puoi».
A metà tra il biglietto vincente della lotteria e la granitica convinzione che serva applicazione, metodo e costanza anche nell’azione di sfregare senza posa un gratta e vinci, «perché alla fine il duro lavoro viene premiato», gli eletti o aspiranti tali presentano questi “bonus” di volta in volta o come associati a magici moltiplicatori che produrranno multipli di benefici e quindi si ripagheranno ampiamente oppure, nei casi di comunicazione più popolare e popolana, con uso e abuso dell’avverbio “gratuitamente”. Che, in un paese cattolico come il nostro, richiama il concetto di grazia ricevuta.
Felicità e realtà
Di solito, la felicità per il ritrovato orgoglio nazionale viene improvvisamente spezzata dalla realtà, che tende a presentare il conto sotto forma di conti pubblici e risultati economici non particolarmente lusinghieri.
Costretti temporaneamente a levarsi gli occhiali da sole con cui guardano un futuro accecante, di solito gli eletti reagiscono identificando gli autori di un complotto che ha impedito il raggiungimento della felicità, che da noi ben più che negli Stati Uniti dovrebbe essere inserito come diritto costituzionale.
Segue identificazione del nemico, interno ma soprattutto esterno, e conferma delle due maggiori certezze prodotte dal nostro dibattito pubblico: in primo luogo, della bontà della tesi di Einstein, secondo cui follia è ripetere le stesse azioni attendendosi ogni volta un risultato differente; poi, anche in ossequio al mainstream culturale che pervade la Penisola, convinto che la realtà abbia un inequivocabile bias “liberista”, come si dice della corrosiva ideologia che tenta da lustri di ridurci alla fame sfruttando il diabolico diversivo di un costante aumento di spesa pubblica, si denuncia che è «tutta colpa del neoliberismo».
Compiuta la rivoluzione attorno al sole dell’avvenire, si riparte verso nuovi giorni del giudizio.
Non prima di aver tirato fuori dal cassetto proposte di radicale rigenerazione delle sorti della comunità nazionale e organizzato le truppe sui social, programmate come veri bot umani per sfidarsi a colpi di hashtag. Ed è subito sera. Delle elezioni.
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