Nell’epoca in cui il web comincia a insorgere contro gli influencer e le loro vite da sogno, mentre l’hashtag #influcirco setaccia ogni accenno di opulenza non gradita a riprova di un cambio netto del sentiment nei confronti del lusso, nell’epoca in cui i ricchi di finzione vengono puniti per il loro egoismo tracotante, C’è anche domani rema nella direzione opposta: una sorta di Wolf of Wallstreet padano e moralmente corretto
Ci sono diverse ragioni per cui Succession è considerata all’unisono una delle migliori serie televisive degli ultimi anni. Lo stile quiet luxury dei cappellini firmati Loro Piana, gli elicotteri usati come fossero monopattini elettrici, le battute di Tom a Greg, i «disgusting brothers» e la «ludicrously capacious bag», i freestyle di Kendal Roy e le foto inopportune di Roman Roy.
A voler fare un elenco delle cose scritte magistralmente dagli autori della serie HBO, dai macro-temi alla caratterizzazione di ogni personaggio, non si finisce più. Eppure, per quanto il diavolo stia nei dettagli degli abiti di sartoria cuciti addosso ai fratelli Roy, c’è un aspetto di questa serie che la rende particolarmente unica: non si salva nessuno. Tra i grattacieli di New York, nei castelli in Inghilterra, alle serate di beneficenza, non esiste un solo personaggio in Succession che non sia mosso da un senso viscerale di prevaricazione, arroganza, egoismo e cinismo. I miliardari di Jesse Armstrong sono esattamente ciò che ci aspettiamo, una manica di infami.
A fare da contraltare narrativo per il capitalismo italiano, quello cattolico della Milano operosa, della pianura padana figlia di mani callose, fabbriche e nebbia, c’è Ennio Doris – C’è anche domani, film passato qualche giorno dalle nostre sale cinematografiche lo scorso aprile e ora in streaming su Mediaset Infinity, dopo la prima serata di Canale 5. Con il lungometraggio di Paola Cortellesi, uscito mesi prima, non c’è niente in comune, sebbene il titolo suggerisca una qualche forma di continuità: pura coincidenza, si intitolava già così la biografia del fondatore della Banca Mediolanum da cui è tratta la pellicola.
Anche i ricchi piangono
Doris, quello che disegnava i cerchi sulla sabbia, protagonista di uno degli spot-tormentoni degli scorsi decenni, «è tutto intorno a te», l’amico di vecchia data di Silvio Berlusconi, il banchiere gentile, nella trasposizione cinematografica della sua vita passata al fianco dei risparmiatori, nonostante elicotteri, case sontuose e miliardi sul proprio conto, esattamente come la famiglia Roy, è un Massimo Ghini con delle lenti a contatto azzurre che lo fanno assomigliare pericolosamente a Francesco Chiofalo, l’influencer che ha cambiato colore degli occhi in Turchia. Doris, e con lui il sogno americano del self-made man che dalle vacche passa ai jet privati, è il protagonista di una delle operazioni agiografiche più anacronistiche che il cinema potesse regalarci.
Nell’epoca in cui il web comincia a insorgere contro gli influencer e le loro vite da sogno, mentre l’hashtag #influcirco setaccia ogni accenno di opulenza non gradita a riprova di un cambio netto del sentiment nei confronti del lusso, nell’epoca in cui i ricchi di finzione vengono puniti per il loro egoismo tracotante – Don’t look up, Leave the world behind, giusto per citare alcuni titoli che condividono il tema – e in cui i ricchi veri, i miliardari del tech, fanno campagna elettorale aizzando le masse contro le élites (di cui loro stessi fanno parte), C’è anche domani rema nella direzione diametralmente opposta.
Oltre l’encomio, oltre uno spot lungo due ore a metà tra una pubblicità Barilla e un video promozionale di banca Mediolanum, oltre il ritratto nobiliare contemporaneo che gli aristocratici del presente commissionano alle piattaforme, come Gianluca Vacchi e il suo Mucho Más prodotto da Prime Video, per citare il più eclatante. Il film ha l’aspetto di una fiction pur non essendolo, ha la colonna sonora di un film di Natale anni Novanta pur non avendo John Williams tra i compositori e l’ambizione di un prodotto per tutta la famiglia che racconta la magia di un sogno che diventa realtà, ai limiti della beatificazione del piccolo Doris che resuscita dalla febbre e si alza dal lettino solo per lavorare. Del resto, anche Berlusconi sosteneva di emanare un certo odore di santità, deve essere un tratto comune alla cerchia degli eletti di Arcore.
Una Milano da ri-bere
Se si dovesse descrivere C’è anche domani con una serie di riferimenti cinematografici, al di là del tono pubblicitario e delle comparse che sembrano prese direttamente da Publitalia, si potrebbe dire che è una sorta di Wolf of Wallstreet padano e moralmente corretto, con protagonista un Patrick Bateman senza il lato oscuro, o un Fantozzi che ce l’ha fatta, orgogliosamente ragioniere, e la verve ispirazionale dell’Attimo fuggente, il tutto filtrato dalla Milano da bere vanziniana di Yuppies.
Tra il dramma della Lehman Brothers, durante il quale Doris pensoso passeggia per la città con i Pooh in sottofondo, e i flashback nella provincia padovana rurale di un’Italia ormai perduta (ma mai dimenticata dai nostri protagonisti, «Promettimi che non ti dimenticherai di quando eravamo poveri», dice la mamma al giovane Ennio), la storia di Doris passa attraverso il boom economico italiano e i ruggenti anni Ottanta per scolpire nella memoria collettiva frasi come «i fondi comuni d’investimento sono la nuova frontiera del risparmio» o espressioni del calibro di «la deducibilità dalle tasse dei piani di accumulo pensionistici» pronunciate con l’enfasi del grande cinema.
Torna in mente il Guzzanti di Boris che si arrovella sui pacchetti azionari, «ma cos’è, è fisicamente un pacchetto?». L’ambizione di far passare per epici, mitologici quasi, dialoghi di questo tenore, come se fossimo davanti a Oppenheimer che sperimenta la bomba atomica invece di un banchiere che parla del fatto che «il previdenziale è il nostro prodotto di punta» o che difende a spada tratta «i nostri fiscalisti», mediati dalla proverbiale bontà e umiltà del grande patrono di Mediolanum, è forse il tratto più surreale del film, se già non bastassero i numeri che escono fuori dai faldoni della banca o dal cielo stellato per raccontarci la magia della contabilità, un po’ A beautiful mind un po’ Will Hunting.
C'era ancora l’ascensore
Al netto dello stupore che può provocare una storia ambientata in un mondo in cui ancora esisteva l’ascensore sociale e della sospensione dell’incredulità nei confronti della biografia di un uomo potente e capace come Ennio Doris raccontata come la vita di un santo – con involontario effetto comico annesso –, la sfasatura narrativa e temporale di C’è anche domani rispecchia un cambio di passo nei confronti dell’idea tardo-novecentesca di successo, ostentazione e ricchezza. La favola del miliardario benefattore, per quanto gentile e onesto appaia, si scontra con un presente in cui le disparità economiche e sociali, più che ispirazione, producono rabbia, o semplice disincanto, fastidio, anche in termini di strumentalizzazione: è il duello del momento, l’invidia sociale che divora la coscienza di classe, il populismo che si nutre di rancore senza fornire gli strumenti per la cara vecchia Klassenkampf.
Alla fine della terza stagione di Succession, i tre figli di Logan Roy, il tycoon su cui si fonda l’impero della famiglia, chiedono al padre perché voglia togliere loro la società e venderla per accumulare altri miliardi per sé stesso, considerato che lui ne ha già parecchi da parte. «Make your own fucking pile», risponde lapidario, fatevi il vostro, di gruzzolo, e non venite a chiedere soldi a me. Spietato e realistico, Logan Roy è il miliardario che rende l’azione credibile: anche lui, come Ennio Doris, viene dal nulla, ma non finge di provare nostalgia per il piccolo mondo antico che ha lasciato alle spalle. E per quanto magnanime possa essere un uomo che naviga nell’oro, non è così facile ricordarsi di essere stati poveri quando si va via da una giocata a carte con i vecchi amici del paesello in provincia di Padova a bordo di un elicottero.
© Riproduzione riservata