In letteratura non ci sono soltanto papi partoriti dalla fantasia. Molti scrittori hanno infatti descritto pontefici reali, a metà strada tra la storia e quello che sarebbe potuto plausibilmente accadere, in una dimensione che si colloca tra realtà e sogno, che proprio dalla realtà è originato. Gli esempi sono diversi: dal capostipite a cui il papato si richiama, san Pietro, a figure contemporanee come quella di Pacelli, che è sullo sfondo del romanzo di Jean-Baptiste Andrea, vincitore nel 2023 del Goncourt, e campeggia – insieme a Stalin – in un racconto di Guido Morselli.

Molto presto il pescatore di Betsaida è protagonista di numerosi testi apocrifi. Risalgono infatti al II secolo un’Apocalisse di Pietro e gli Atti di Pietro, con il celebre episodio del Quo vadis (che nel 1895 dà il titolo al romanzo di Henryk Sienkiewicz, lo scrittore polacco dieci anni più tardi premio Nobel per la letteratura). Per mettersi in salvo dalla persecuzione l’apostolo abbandona Roma ma, appena uscito, vede Gesù entrarvi: «Signore, dove vai (domine quo vadis)?» gli domanda stupefatto. A farmi crocifiggere di nuovo, è la risposta. Pietro allora capisce e, tornato in città, affronta il supplizio della crocifissione capite inverso, a testa in giù.

Nel secolo successivo l’apostolo è l’eroe di un romanzo lunghissimo ed eterogeneo, detto «pseudo-clementino» perché si presenta come scritto da Clemente, che nelle antiche liste episcopali è il suo terzo successore a Roma. Racconto avventuroso alla maniera ellenistica, con continui colpi di scena tra viaggi, naufragi, riconoscimenti, magie, metamorfosi, interventi divini, il testo – percorso da un’aspra polemica con l’apostolo Paolo – conosce un successo strepitoso soprattutto nella traduzione latina di Rufino, con oltre cento manoscritti conservati.

La storica rivalità tra Pietro e Paolo, che quest’ultimo documenta nella sua Lettera ai galati, è lo spunto nel 1895 della prima narrazione nelle deliziose Stories Toto Told Me di Frederick Rolfe, il convertito dall’anglicanesimo autore nel 1904 del romanzo Adriano VII con lo pseudonimo di Baron Corvo. La vicenda intrigante dell’immaginario papa inglese cela i tormenti e i risentimenti dell’eccentrico e raffinato Rolfe, espulso dal collegio scozzese di Roma probabilmente per le aperte tendenze omosessuali e protetto dalla connazionale Caroline Shirley, divenuta duchessa Sforza Cesarini, fino alla morte in miseria a Venezia.

Inizialmente pubblicati sul trimestrale illustrato da Aubrey Beardsley e ora magnificamente tradotti da Giovanni e Giuseppe Balducci (Di santi, diavoli e… «The Yellow Book», 1895-1896, Aragno), i racconti di Toto – sedicenne, «era una splendida creatura selvaggia (un ragazzaccio, a dirla tutta), degli Abruzzi, una figura simile al Perseo di Cellini» – hanno per protagonisti santi e creature angeliche, scherzi e litigi tra cielo e terra.

Come appunto lo scontro tra Pietro e Paolo, perché il primo ruba nottetempo marmi e colonne per abbellire la sua basilica a spese di quella del collega. «E lei sa, signore, che la chiesa di San Paolo viene sempre bruciata o fatta saltare in aria, e che la chiesa di San Pietro non è mai stata abbandonata dalle mani dei muratori?!» conclude il bellissimo Toto, alludendo all’incendio – forse per un attentato carbonaro – che nel 1823 aveva effettivamente devastato la basilica sulla via Ostiense e al detto romano sulla «fabbrica» di quella vaticana, che non finisce mai.

Eresia

L’invidia spinge poi uno zelante gesuita, padre Tonto Pappagallo, ad accusare di eresia il francescano Fra Serafico, «chiamato da papa Silvio a predicare la quaresima». Ma l’accusa si sgonfia quando si scopre che la presunta eresia dell’umile frate era tratta niente meno che da Gregorio Magno, che a sua volta aveva citato una lettera di san Paolo.

Sdegnato, il Padre Eterno chiede allora chi sia il responsabile della calunnia: «Un gesuita! E in nome del cielo, che cos’è?». Chiamato allora a dar spiegazioni, Ignazio di Loyola confessa il fallimento nei confronti del suo ordine: «O Potenza Infinita, per tutta la vita ho cercato di insegnar loro a farsi gli affari propri, ma in verità non sono riuscito a farmi ascoltare». Scagionato così Fra Serafico, papa Silvio lo acclama insieme ai cardinali e al popolo.

Nel romanzo vincitore del Goncourt (Vegliare su di lei, La nave di Teseo, una storia d’amore tradotta da Simona Mambrini) monsignor Pacelli, inatteso mecenate, entra in scena nel 1920 ammirando un’opera del protagonista, Mimo, sedicenne come il Toto di Rolfe: «Prodigioso. Oltretutto per uno scultore così giovane, ma del resto anche i grandi artisti del Rinascimento cominciavano da giovani. La perfezione delle forme, dei movimenti è semplicemente straordinaria. E questa modernità…» mormora stupefatto il prelato. «Complimenti giovanotto. Farà strada. E magari le daremo una mano, chissà».

Così avviene e quattro anni più tardi Pacelli gli chiede un San Pietro che riceve le chiavi del paradiso, che Mimo raffigura «sofferto come soffre un uomo che rinnega per tre volte il suo migliore amico, un tradimento che nessuno gli permetteva di dimenticare, letto anno dopo anno in tutte le chiese del mondo. E reggeva la chiave del paradiso senza l’aria solenne degli altri». Quando vede la scultura, Pacelli ha «le lacrime agli occhi», ma la realizzazione non può essere accolta come committenza ufficiale: «La terrò per me. La pagherò di tasca mia. È un’opera troppo… audace per alcuni di noi. Ma io capisco».

Udienza a Stalin

Nonostante ovvie libertà narrative il Pacelli del romanzo convince. E nemmeno il cardinalato lo cambia: «Gli stessi occhialetti tondi che portò per tutta la vita, lo stesso curioso contrasto tra labbra avare di sorrisi e un mento sensuale, da pugile o da attore, che invitava a un pugno o a una crapula». Nei cupi anni di guerra Mimo finisce a Regina Coeli e l’amico mecenate, ormai papa, gli manda più volte «un sacerdote tedesco, padre Pancrazio Pfeiffer, un salvatoriano soprannominato l’Angelo di Roma», vero protagonista nella città dominata per mesi dai nazisti.

L’ultima apparizione del papa è nel ricordo dello scultore, quando la guerra è ormai finita, e la riflessione di Mimo si trasforma in giudizio fondato sulla realtà dei fatti di quel tempo: «In seguito Pio XII fu accusato di non aver preso le difese degli ebrei in modo più netto, troppo legato alla neutralità del Vaticano, ma io ho vissuto nel bel mezzo di quelle tragedie, non lontano dalla Santa Sede, e posso affermare che, dietro le quinte, Pacelli si prodigò attivamente per salvare il maggior numero possibile di perseguitati. Non sono molti i papi che avrebbero offerto la propria stanza a Castel Gandolfo ai rifugiati ebrei. Ma Pacelli, appunto, non ne parlò mai».

Ai confini della realtà, ma con tratti sorprendentemente credibili, Pio XII è descritto nel racconto di un’udienza a Stalin – mai avvenuta (o forse sì) – che Guido Morselli ambienta nel 1950, «anno giubilare, anno di grazie e di portenti», in piena guerra fredda. Il breve scritto dell’autore del romanzo Roma senza papa, pubblicato postumo cinquant’anni fa da Adelphi, s’intitola Il Grande Incontro e apre ora la raccolta di scritti Gli ultimi eroi (il Saggiatore) realizzata da Giorgio Galetto, Fabio Pierangeli e Linda Terziroli, curatrice dello stesso racconto in una raffinata edizione di trecento copie edita nel 2019.

Morselli, senza bisogno di fare i nomi del papa e del dittatore, ricostruisce con cenni accurati – e in una prosa sorvegliatissima – l’udienza fin dall’annuncio telefonico: «Il candido apparecchio trillò sommesso sulla scrivania. La mano, quasi ugualmente candida, che si stese al ricevitore, ebbe un lievissimo tremito».

Entrato il visitatore, «alti e diritti, i due Personaggi furono a fronte, e si fissarono: potenti fra i potentati, venerati fra le maestà della Terra, viventi emblemi per innumerevoli moltitudini». All’inizio «il silenzio assunse una prestigiosa intensità, parve compendiare immense distese di spazi e di tempi; parve dilatarsi sul mondo, fra i popoli ignari e tuttavia presenti, ansiosamente aspettanti.

La veste del primo aveva morbide opacità di avorio; l’uniforme del sopravvenuto era grigia e disadorna, austeramente marziale. Presero posto vicino alla scrivania, sedendo nello stesso momento, con la lentezza degli uomini anziani» osserva lo scrittore come se fosse stato presente all’incontro. E le perfette sei pagine di Morselli – che non vanno guastate da un riassunto – illuminano molto più di un libro di storia.

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