A dire la verità quando mio padre mi ha detto che potevo diventare anche io cittadina lituana (a lui hanno dato il passaporto nel 2022) non ero sicura fosse una buona idea. La consegna di questo passaporto diventa per me una possibilità di indagine sulla mia Identità. Su cosa significa, se ha (ancora) a che fare con un luogo, uno spazio, uno stato, o se invece è più complessa e volatile. O se le due dimensioni convivono necessariamente
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
In uno dei giorni più caldi di questo 2024, in piena apocalisse romana – temperature da allucinazione e città al collasso, bloccata da cantieri che promettono un futuro migliore ma tutto da conquistare – sono andata all’ambasciata Lituana: un grande appartamento in un palazzo ottocentesco che affaccia sul fiume, spoglio e accogliente. Noto subito che c’è un citofono, è la prima volta che vedo un citofono invece di portiere e polizia e perquisizioni all’ingresso di un’ambasciata; sembra casa di qualcuno. Mi piace che sembri casa di qualcuno. Suono, nessuna risposta ma il portone si spalanca.
Il documento
Mentre salgo le scale: tachicardia, vertigini; sarà la temperatura, sarà un malore, cosa sarà? Arrivo all’ultimo piano. Trovo targa, bandiera e videocitofono. Aspetto, mi avvicino alla piccola camera, mentre immagino di essere osservata dall’altro lato, deformata e in bianco e nero riprodotta in un piccolo televisore; nessuno risponde, suono di nuovo e ancora e infine passi, pausa, altri passi e la porta si apre.
Una ragazza giovane e bionda mi saluta in italiano, e poi in inglese, mi presento, le dico che sono qui per “quei documenti” – con pudore, quasi. Perché pudore? – lei mi sorride e mi guida nell’appartamento. L’aria è calma, nessuna frenesia.
Mi guardo intorno il minimo indispensabile, cerco solo di non sentire il mio battito, di fermare la vertigine, e non svenire. Ma in fondo perché dovrei? Di cosa ho paura?
Entra in una stanza, la seguo. Sparisce in una porta e riappare dietro un vetro (di quelli da ufficio pubblico, fatti per separare il mondo dalla burocrazia). La sua voce dal microfono mi spiega i documenti che ha appena fatto scivolare verso di me, e a me del tutto estranei.
Fisso il foglio scritto in una lingua che non riconosco. Mi rendo subito conto che non posso neanche tentare di leggere quelle parole, figuriamoci capirle. Le lettere hanno delle “superfetazioni” per me indecifrabili, e sono messe insieme in una maniera impronunciabile.
Sull’A4 però riconosco svariate croci che mi segnalano, in una lingua universale e senza alfabeti, che lì e solo lì devo firmare. Il resto verrà compilato in seguito, mi spiega.
Chiaro? Chiaro. Firma per favore, firmo. Le ripasso i moduli, perché di questo si tratta. Ci sorridiamo, lei esce dal piccolo acquario e ritorniamo in un corridoio misteriosamente luminoso. Dopo qualche metro apre una porta e mi dice solo di entrare e stare ferma. Eseguo. Il mio respiro si sta calmando, non mi sento bene ma almeno non sto per svenire. Sono più comoda qui, nella penombra, finché un flash mi illumina. La ragazza appare da una cabina che solo ora riesco metto a fuoco, e mi mostra uno schermo con la mia faccia: mi ha appena scattato una foto. Rifacciamola per favore, hai gli occhi chiusi! È possibile? Certo, è possibile, rifacciamola. Altro flash, esce, mi mostra la nuova foto, va bene? Va bene. Finito? No.
Accende la luce, ecco la Macchina, mi sembra un oggetto medico, uno strumento diagnostico (dedicato allo studio del “fuori” e non del “dentro”): c’è un piano che pare di cristallo. La ragazza: qui l’indice destro e dal lato opposto il sinistro. Eseguo, ancora una volta. È bello avere qualcuno che ti dice cosa fare, l’automatismo dei protocolli che puoi solo seguire. No, non è venuta bene, ho le mani sbiadite, e pure le linee del palmo e le impronte digitali. Devi spingere con più forza, mi spiega. Con più forza. Convinzione.
Ecco, ci siamo, perfetto. Abbiamo finito, grazie.
Aspetta hai dimenticato una firma qui. Firmo.
La ragazza mi saluta dicendomi che tra un mese mi richiameranno per il ritiro.
Del mio passaporto.
La storia di mio padre e di mio nonno
A dire la verità quando mio padre mi ha detto che potevo diventare anche io cittadina lituana (a lui hanno dato il passaporto nel 2022) non ero sicura fosse una buona idea. Solo più tardi ho capito che era importante per lui e non solo per lui, e quindi ho detto sì a una storia che mi precede, a cui appartengo, e di cui per tantissimo non ho voluto sapere nulla. Ma esiste un tempo per tutto, anche per provare a capire la (nostra) storia.
D’altronde la fatalità della vita è nota e anche in questo caso è protagonista. Tutto inizia molto prima di questi giorni caldissimi: bisogna arrivare almeno al 1910, quando è nato mio nonno, a Kaunas, in Lituania appunto. Le cose si sono subito complicate, il bambino è rimasto orfano a sei anni (cosa che succederà anche a mio padre nel 1950): il padre medico, durante la prima guerra mondiale, ha ceduto il posto su un mezzo di soccorso a un malato e quando sono tornati a prenderlo era morto.
E così il bambino dell’epoca che sarebbe stato mio nonno, da Kaunas è andato a vivere a Mosca per pochi anni, da qui poi è scappato quando è scoppiata la rivoluzione e così lui, la madre e il fratello sono tornati in Lituania. La madre si è risposata con un ingegnere che voleva che lui, che non era neanche suo figlio, diventasse ingegnere. Il ragazzo però ha scelto medicina, chissà se per riaffermare suo padre, nel mondo dei vivi. Le difficoltà di una famiglia si moltiplicano e aumentano come quelle della storia dell’Europa di quegli anni. Quando è in Germania a studiare medicina si inizia a preparare la seconda guerra mondiale, e poco prima che esploda decide, fatalmente, di venire a Roma per un corso di perfezionamento. Erano gli anni ’30, non succedeva spesso. E così in una città universitaria deserta e appena inaugurata, incontra la futura moglie, ovvero mia nonna, lei romana e la prima della sua famiglia a laurearsi. Nel frattempo scoppia la guerra, non può lavorare perché è straniero (e pure ebreo), vanno a vivere insieme (lei si porta solo una valigia di libri nel monolocale di lui), poi si sposano con la famiglia di lei contro (perché è straniero e in più ebreo a differenza di mia nonna), sono poveri e giovani e festeggiano con un panino in un bar che fatalità esiste ancora ed è proprio sotto l’ambasciata lituana dove sono appena stata.
Nasce mio padre, la guerra finisce, mio nonno vuole andare a vivere in America perché in Italia continua a non poter lavorare. Perché resta straniero. Mia nonna non vuole. Nel 1950 muore mentre studiava il cinese: l’ottava lingua che avrebbe imparato. Fine della sua storia e della sua vita (e apparentemente di un paese in questa storia). Mio padre aveva sei anni.
Il ritiro del passaporto
Tre settimane più tardi dalla firma dei documenti, mi arriva una telefonata dall’ambasciata lituana. È sempre la stessa ragazza che mi avvisa che il passaporto è pronto. E posso andarlo a ritirare. Riattraverso la città, arrivo velocemente – ormai sono tutti partiti.
Ho sempre la tachicardia, la nausea, vertigini; è ansia, ancora non l’hai capito? Ansia di cosa? è solo un passaporto, un documento. Una formalità.
La verità è che non sono più sicura che sia solo questo. Anzi.
Fa caldissimo anche oggi. Mi consegnano il passaporto, parlo con l’ambasciatrice e una giovane addetta culturale intelligentissima. Sono in imbarazzo. So che è stupido, che non è il caso, che non ha senso, eppure. Mi sento intrusa, abusiva, ma soprattutto ignorante.
Forse anche un po’ derealizzata, perché vedo la scena da fuori, in terza persona: una (che sarei io) che riceve un documento che la rende cittadina di un paese che non conosce, in cui non è mai stata, di cui però porta in giro, dentro di sé, il dna.
Inizio a parlare con le due donne, cerco di chiedere dettagli del loro paese che ora è anche il mio (in qualche modo lo è sempre stato, se la genetica ha un senso). Le città, la natura, i laghi. Le dune baltiche bianche e gigantesche. Immagino, ascolto, provo a capire se qualcosa risuona familiare.
Poi chiedo dettagli sulla storia di un paese per me imprendibile, perché appare e scompare dalle carte geografiche, inglobato conteso diviso tra Polonia e Russia e poi Unione Sovietica. A tratti mi sembra un luogo immaginario, che c’è e non c’è. È stato invaso spartito annesso, liberato, rioccupato, reso indipendente di nuovo e di nuovo occupato e di nuovo indipendente. È difficile capire il sentimento storico che appartiene a queste persone, loro sì dall’identità fortissima, indiscutibile, anche se “senza” paese sono restati sempre lituani. Sentir dire dall’ambasciatrice che per loro la seconda guerra mondiale è finita nel 1989 è stato un terremoto.
Un’indagine sulla mia identità
La consegna di questo passaporto, di un documento di identità, diventa per me una possibilità di indagine sulla mia Identità. Su cosa significa, se ha (ancora) a che fare con un luogo, con uno spazio, con uno stato, o se invece è più complessa e volatile. O se le due dimensioni invece convivono necessariamente.
Eppure l’unica cosa che so è che con questo gesto stiamo restaurando la storia di una persona, di un paese, e dell’Europa (come ha detto l’ambasciatore quando ha dato a mio padre il suo passaporto).
Per mio nonno sarebbe stato un trofeo essere riconosciuto anche (non solo) cittadino italiano, perché gli avrebbe permesso una vita decente, invece di fare il medico “di nascosto” e vivere da rifugiato (aveva anche quel documento!) in un paese ostile a qualsiasi forma di “estraneità”.
Oggi viaggiamo senza documenti – se siamo fortunati – le frontiere europee sono quasi invisibili, per noi (e sottolineo noi purtroppo); non ci sono timbri, visti, permessi di soggiorno, non ci sono rinvii e argini.
Il documento (qualunque documento) fino ad ora per me è stato solo un oggetto che non trovo mai al momento di partire, che nascondo sempre nel posto sbagliato. Mai è stato un simbolo.
Mi chiedo quindi che significa essere cittadina di un paese dove non sono mai stata, con una lingua aliena piena di desinenze e lettere che non so pronunciare. Un paese di cui non so i confini perché decido di dimenticarli ogni volta – anche se li ho cercati di imparare infinite volte. Un posto di cui non conosco le città, né so a cosa somigliano gli abitanti (ho in mente solo il profilo di Nekrosius e la faccia-macchina da presa di Mekas). È per me tutto un mistero, quello che si mangia, che si fa, che si legge, la sua anima e il cuore baltico che ora tanto mi pare prossimo. Allo stesso tempo mi pongo la questione anche rispetto al mio paese, a cui appartengo in una maniera che fino ad ora mi pareva automatica (e casuale), quando invece non lo è per niente. E soprattutto non lo è per tutti.
Sul passaporto ho una foto con la faccia spaventata e i capelli selvatici. È un documento che ho ottenuto mettendo la mia firma dopo una croce. È stato un patto di fiducia reciproco tra me e un paese, tra me e la mia storia.
A metà agosto dovevo partire e mi pareva una buona occasione, quel piccolo viaggio, per usare il passaporto nuovo. Di nuovo tachicardia, di nuovo vertigine (ma quella è la vertigine del tuo stare al mondo! Ancora non l’hai capito!). Sono partita, l’ho portato con me, e nessuno me l’ha chiesto. Il documento non serviva. E quindi non l’ho usato, è rimasto in mezzo al libro che leggevo, nel suo segreto, come a ricordarmi che segreta resta la storia che tutti portiamo dentro, anche quando pensiamo che fatalmente è tornata ad essere nostra.
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