È uno dei tè con la lavorazione più complessa. Acquista sapore con il passare del tempo e da invecchiato può diventare costosissimo. La storia dell’intensa speculazione di cui è stato oggetto nei primi anni Duemila racconta una sfaccettatura del boom economico cinese
Fra tutti i tipi di tè esistenti, il pu’er è uno dei più complessi: sia per la degustazione, che richiede un certo livello di pratica per abituarsi ad apprezzare le sue sfumature di sapore, sia perché è uno dei rarissimi tè che possono essere invecchiati, e che acquisiscono sapori sempre più complessi col passare del tempo.
I tipi principali di pu’er sono due: c’è il sheng cha, ovvero il tè “crudo”, non sottoposto a un processo di post-fermentazione. E c’è il shu cha, il pu’er “cotto”, più scuro (e più recente, dal momento che viene sottoposto a un nuovo processo di fermentazione che ne rende più complesso il sapore solo dagli anni Cinquanta del secolo scorso).
Se per altri tipi di tè si parla solo di foglie, per il pu’er, venduto sia sfuso che in blocchi schiacciati, si parla anche di tè compresso, e quindi di mattoni oppure di dischi (di recente, il tè viene compresso anche a forma di teiera, o di panda, giusto per giocare). Il pu’er infatti è divenuto quello che conosciamo oggi per la sua affinità con i nomadi. È un te che si è sviluppato sulla Via del tè a cavallo, ovvero, schiacciato in panetti per un facile trasposto da parte di cavalieri tibetani che compravano le foglie in Yunnan (la regione cinese del sud che confina con il Vietnam, il Myanmar, il Laos e l’India, e la cui sezione settentrionale comprende una parte del Tibet storico). Le prime notizie che abbiamo del pu’er, coltivato nello Yunnan e conosciuto in tutta l’Asia Centrale, ci arrivano dalla dinastia Tang (618-705), quando per l’appunti i cavalieri tibetani iniziarono a darsi al commercio, e portarono questo te robusto su tutto l’altipiano e oltre.
Foglie di lusso
Da nuovo, il pu’er è uno dei tè più economici che ci siano, l’opzione per default di molti ristoranti cinesi, da Hong Kong a Roma passando per Pechino. Da invecchiato invece può diventare più costoso di qualunque champagne: dischi di pu’er conservati in asciuttissima perfezione di annate particolarmente lontane sono venduti alle aste di Sotheby’s e Christie’s.
Nel 2022, per esempio, Sotheby’s a Hong Kong tenne l’asta Tesori di tè e vendette 340 grammi di pu’er crudo per 88mila euro: un disco di tè che era stato pressato nel 1930. Questo è successo a circa 15 anni dall’esplosione della bolla speculativa del pu’er, che ha portato a tutte le follie di una bolla speculativa, e che, secondo gli ottimisti, mostra che c’è un futuro “legittimo” per il pu’er di lusso. Durante la bolla, c’era chi si indebitava per poter acquistare mattonelle che promettevano di essere antiche, chi si ingegnava ad anticare mattonelle appena sfornate, chi restava ai margini chiedendosi se avrebbe mai più potuto permettersi di sorseggiare il suo te preferito, chi imbrogliava e chi investiva, e chi faceva o perdeva un sacco di soldi.
La bolla, che arrivò ai suoi apici nella prima decade del secolo, era proprio caratteristica del furore economico della Cina di quegli anni: il pu’er era improvvisamente diventato di gran moda perché, secondo alcuni medici tradizionali cinesi, è un te in grado di combattere il colesterolo, far passare i postumi delle sbronze, e aiuterebbe anche a smaltire i grassi. Visti i banchetti pantagruelici dei nouveaux riches di quel periodo, il pu’er sembrava il toccasana, e più costava carissimo, più chi si era lasciato convincere trovava che toccava e sanava come e più di una medicina.
Specchio del paese
Possiamo vedere nell’avventura del pu’er parte della storia contemporanea cinese. Dopo decadi di tè di poco pregio consumato dentro barattoli riciclati di Nescafé, dalla fine degli anni Novanta in poi, grazie alla de-nazionalizzazione di alcune piantagioni che resero accessibili te pregiati anche a chi non era un alto quadro di Partito, molti cinesi poterono nuovamente cominciare a degustare tè con un po’ più di attenzione e ad esplorare i loro gusti. Man mano vennero istituite delle chacheng – città del tè – in tutte le principali città cinesi, con edifici di diversi piani interamente dedicati al tè e alle suppellettili per prepararlo, con ampie sezioni per il pu’er.
Riaprirono molte sale da tè con caratteristiche regionali, come quelle del Fujian, dove il tè viene consumato fortissimo, e bevuto in piccolissime tazzine di porcellana che si tengono fra il pollice e l’indice. Oppure, il gongfucha – la cerimonia del tè, che varia un po’ da regione a regione. In Guangdong, una delle principali regioni produttrici di oolong, si degusta con l’aggiunta di una tazzina “da naso”, usata per godere del profumo del te, prima di versarlo poi nella tazzina da cui lo si beve.
Per il pu’er, in piena bolla speculativa, mentre un panetto trovato in qualche cantina, con tanto di morsi di topi e macchie di umidità poteva accrescere di valore dalla sera alla mattina, si selezionavano teiere e tazzine di Yixin, una località cinese dall’argilla molto porosa marrone, preferita per fare le teiere, o in alcuni casi tazze trasparenti di vetro, nelle quali ammirare l’ampia foglia del pu’er in tutta la sua dimensione. Man mano che i nuovi ricchi in cerca di un elisir capace di mantenerli sani e snelli s’invaghivano del pu’er, i contadini dello Yunnan ne producevano quantitativi sempre più ingenti (arrivando a 100mila tonnellate nel 2007, l’anno prima dello scoppio della bolla).
In quegli anni, blocchi di pu’er che si diceva fossero dell’Ottocento vendettero per più di un milione di euro, ma presto i falsi cominciarono a soffocare il mercato. Le aziende che producevano il tè pu’er nel corso degli anni avevano anche utilizzato la sottile carta velina con cui si impacchetta anche per stamparci sopra slogan politici in voga nell’èra maoista, che inizialmente erano serviti come facile strumento di datazione del prodotto, ma anche uno dei più facilmente falsificabili. Per riprodurre dei pu’er shu cha invecchiati in fretta ma con un sapore complesso ecco che gli scaltri si misero a fermentarlo su ogni tipo di mucchi di paglia bagnati. Quando la stampa nazionale riportò di aver arrestato dei produttori che utilizzavano urina di cavallo per la bisogna, ecco che la bolla, in appena qualche mese, si sgonfiò, lasciando sul lastrico chi aveva appena impegnato casa per acquistare un paio di tonnellate da mettere a profitto.
Oggi il pu’er di alto livello continua ad essere considerato un tè per intenditori, e infatti non si “beve”: si “studia”, secondo il vocabolario utilizzato dai commercianti più reputati. Un po’ per volta, si abituano palato e narici a riconoscere un te fermentato da uno “crudo”, uno più giovane da uno più maturo. E anche se oggi (anche alle aste) gli appassionati di pu’er ci vanno più cauti, questo te inusuale ha resistito alla bolla speculativa e alla sua esplosione.
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