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Il 2021 segna il centenario della nascita di Andrea Zanzotto, poeta veneto, nato a Pieve di Soligo nel 1921. L’opera di Zanzotto dimostra, immersa nell’epoca della crisi ecologica, tutta la sua attualità nella denuncia dei disastri ambientali.
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I versi poetici di Zanzotto evocano la natura della “selva” della tradizione boscosa, una natura incontaminata senza l’impronta più nefasta dell’uomo, una giungla verbale, una terra desolata frammentata in infinite ere geologiche e sedimenti.
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Zanzotto è stato uno dei primi autori italiani a sentire la pressione del “megatempo”, il tempo grande, geologico e macrostorico che pulsa sotto le apparenze della cronaca e sotto la pelle di ciò che vediamo: dalla catastrofe climatica attuale, agli aspetti più negativi della globalizzazione.
Il 2021 segna il centenario della nascita di Andrea Zanzotto, poeta veneto, nato a Pieve di Soligo (Treviso) nel 1921. L’opera di Zanzotto dimostra, immersa nell’epoca della crisi ecologica, tutta la sua attualità nella denuncia dei disastri ambientali.
Definito da Gianfranco Contini il più importante poeta italiano dopo Montale, Zanzotto farà il “professore di provincia”, come amerà definirsi, e non si allontanerà mai davvero dal suo territorio: il Montello, area in provincia di Treviso caratterizzata da foresta e colline, nonché luogo e patria dei versi di Zanzotto, la sua Heimat poetica.
Quella zanzottiana è un’opera ricca e ampia che comprende, oltre a numerose raccolte di poesia, anche scritti teorici, saggi e prose che si sviluppano dagli anni Cinquanta fino alla morte, avvenuta nel 2011. Oltre che poeta, Zanzotto è stato anche traduttore di alcune opere di Honoré de Balzac, Michel Deguy, Georges Bataille, Michel Leiris ed è stato a sua volta tradotto per varie antologie in inglese, francese, spagnolo, svedese ed estone.
Il corpo e la terra
La sua sintomatologia fisica, tra attacchi d’asma ed eruzioni cutanee, si ritrova nei testi poetici accompagnata da una riflessione sulla pelle della terra, parallela a quella sul suo stesso corpo. Questa capacità di farsi cartografo delle proprie malattie è uno dei motivi per cui Zanzotto viaggerà sempre molto poco, se non per convegni o premi (come in Francia, Germania, Austria, Gran Bretagna, Cecoslovacchia).
In un’intervista realizzata da Marzio Breda nel 2009, Zanzotto dichiara: «Resta un fatto: nell’era dei computer (che compongono la cronologia universale nello spazio di un dischetto) e dei satelliti (che hanno corretto al millimetro gli atlanti), così come non c’è più storia, non c’è più geografia».
I versi poetici di Zanzotto evocano la natura della “selva” della tradizione boscosa, una natura incontaminata senza l’impronta più nefasta dell’uomo, una giungla verbale, una terra desolata frammentata in infinite ere geologiche e sedimenti. In mezzo a questa natura il poeta definisce sé stesso un «botanico delle grammatiche»; la parola botanico non è casuale, ma risponde a un preciso intento intrinseco alla sua poesia, ovvero la sua attenzione per la natura e per il paesaggio.
Zanzotto, infatti, è stato uno dei primi autori italiani a sentire la pressione del “megatempo”, il tempo grande, geologico e macrostorico che pulsa sotto le apparenze della cronaca e sotto la pelle di ciò che vediamo: dalla catastrofe climatica attuale, agli aspetti più negativi della globalizzazione. La foresta poetica di Zanzotto rappresenta quindi più una sovrapposizione che una sintesi, un multilinguismo molto lontano dal modello della “lingua nazionale”.
Denuncia ambientale
Si tratta, piuttosto, di un calderone dove la tradizione unificante e il dialetto veneto ribollono come forza eccentrica ma viva, il latino come radice e grammatica, insieme alle altre lingue europee. Per Zanzotto, il linguaggio è posto e assunto come struttura antropologica fondamentale o, in altre parole, come dimensione centrale e vettore dell’essere.
Quello di Zanzotto può essere considerato un percorso di denuncia ambientale che ha condiviso con la riflessione ecologica un continuo dialogo. Zanzotto aveva più volte riconosciuto alla poesia una «velleità di salvarsi salvando, e viceversa», una possibilità, per quanto non immediata, di intervento sul mondo.
Lo sguardo di Zanzotto si muove tra prospettive più cosmiche e micro-prospettive naturali: dalla luna al filo d’erba fino ai detriti, alle rovine, ai ticchettii radioattivi di Chernobyl, al paesaggio offeso dal vampirismo capitalistico. Nei suoi versi proliferano le minime presenze e le apparenze microscopiche insieme ai grandi problemi del secolo scorso, accompagnati tutti da un ritmo che indebolisce e assorda allo stesso tempo. Non a caso, Montale riteneva Zanzotto un «poeta percussivo» dove «il suo metronomo è forse il battito del cuore». I versi di Zanzotto evocano, forse, anche il battito della Terra, un cuore pulsante che si muove tra sedimenti stratificati, attraversando la storia geologica che giunge fino a noi “conglomerata” nel ritmo poetico.
Nel bosco del Montello ebbero luogo numerose battaglie cruciali per la storia italiana ed europea; le più famose sono quelle che portarono, nel 1917-18, alla vittoria italiana sull’Impero austro-ungarico. Zanzotto scende in quell’inferno delimitato dalla cosiddetta “linea degli Ossari” e nella raccolta Galateo in Bosco (1978) ragiona su come gli Ossari dei caduti abbiano trasformato il paesaggio nella prossimità del Montello.
Come ha dichiarato lo stesso poeta: «Nei miei primi libri, io avevo addirittura cancellato la presenza umana, per una forma di “fastidio” causato dagli eventi storici; volevo solo parlare di paesaggi, ritornare a una natura in cui l’uomo non avesse operato. Era un riflesso psicologico alle devastazioni della guerra. Non avrei potuto più guardare le colline che mi erano familiari come qualcosa di bello e di dolce, sapendo che là erano stati massacrati tanti ragazzi innocenti».
Se in Dietro il paesaggio (1951) Zanzotto volgeva le spalle a quella Storia che aveva causato troppi morti, facendo del paesaggio un riparo, nonché luogo non contaminato dalla presenza umana, nel Galateo in Bosco quel paesaggio torna nei versi, ma ora come meta turistica di una natura devastata dalla speculazione edilizia e dall’inquinamento dei pic-nic domenicali. Da un lato emerge sempre un vocativo struggente nei confronti dei luoghi – si pensi anche al titolo della raccolta Vocativo (1957) – dall’altro Zanzotto parla della catastrofe dei luoghi in cui biologia e geologia si parlano continuamente.
Apertura alle scienze
Poeta delle scorie, dei detriti, quella di Zanzotto è una protesta verso l’oltraggio a una bellezza, a una beltà offesa – anche titolo di un’opera centrale nel percorso del poeta, La Beltà (1968) – a partire dalla quale sembrano sgretolarsi lo stesso paesaggio e la sua vocatività.
Zanzotto accoglie nella sua poesia l’apertura alle scienze, da quelle umane a quelle ambientali, da quelle psicoanalitiche alla medicina, dai satelliti alla chimica, dalla botanica alla meterologia. In un’opera più tarda come Fosfeni (1983) i versi oscillano, ad esempio, tra la struttura dei cristalli e quella della mineralità del silicio e del carbonio. Il suo percorso poetico è continuamente sostenuto tra versi di folgorante intensità e citazioni di libri precedenti dello stesso Zanzotto, fino ai «frammenti incerti» che si raggruppano «non secondo una precisa esperienza temporale, ma forse meteorologica», in Meteo (1996).
La sua ultima raccolta uscita nel 2009, Conglomerati, è invece interessante al fine di mettere in luce l’elemento geologico osservato attraverso la sua stratificazione storica. Già il titolo ci fa ragionare sui termini di aggregazione e di sedimentazione non solo spaziale, ma soprattutto temporale. Zanzotto vorrebbe percorrere e sondare questa forza di intensificazione della realtà come si fa con il terreno. In Conglomerati prevale la dimensione geologica del paesaggio: ammassi fossili di elementi eterogenei che si tengono insieme senza fondersi, strati separati che nonostante tutto stanno insieme. Sono nuclei che si avvicinano, senza fondersi, in un contesto di insabbiamento.
Sempre fedele allo stesso paesaggio, fisico e metafisico, Zanzotto intreccia come nessun altro poeta italiano il registro della tradizione orale insieme a quello colto ed erudito. Zanzotto parla della poesia come esercizio delfico, come tragedia tra segni e bagliori, tra lampi improvvisi e lunghe notti cupe. In mezzo a quel paesaggio incerto, in quel paesaggio fatto di impronte e tratti, di narcosi, di insonnia, di ipnosi improvvisa, tali abbagliamenti potrebbero essere il potenziale equivalente di un’Arcadia impossibile che rappresenta il non-finito, come le sue IX Ecloghe (1962) – non a caso una in meno di quelle virgiliane – un segno dell’impossibilità di una struttura chiusa nel contemporaneo.
Sara Massafra è dottoranda presso l’Istituto di studi italiani (ISI) dell’Università della Svizzera italiana (USI). Attualmente si occupa dell’opera poetica di Andrea Zanzotto. I suoi interessi di ricerca vertono principalmente sulla letteratura contemporanea e sulla filosofia, alla luce delle metodologie proprie dei Cultural Studies e delle teorie dell’Ecocriticism. Inoltre, è autrice di articoli giornalistici inerenti ai suoi temi di ricerca, pubblicati tra gli altri da Il Tascabile e Minima&Moralia.
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