Quando si racconta la storia della cucina spesso si incorre in un errore descritto anche da Manzoni: si tende a ridurre l’alimentazione degli uomini in un determinato periodo e in una determinata regione con quello che sta scritto nei ricettari pubblicati in quel periodo e in quella regione
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Nella celebre introduzione dei Promessi Sposi, Manzoni ci spiega che solitamente gli storici «rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co’ loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj».
Ecco, quando si racconta la storia della cucina spesso si incorre nell’errore descritto da Manzoni: si tende a ridurre l’alimentazione degli uomini in un determinato periodo e in una determinata regione con quello che sta scritto nei ricettari pubblicati in quel periodo e in quella regione. In altre parole, si prende un documento storico creato con tutt’altre finalità e lo si usa per comprendere ciò che quel documento non ci vuole dire.
Il fatto è che non è detto che ci siano particolari relazioni tra un ricettario pubblicato a Ferrara o a Caserta nel Seicento e quello che mangiavano i ferraresi e i casertani in quel secolo. La presenza di una ricetta, pubblicata da qualche parte, non la rende né un prodotto di massa, ma nemmeno l’indizio sicuro di una cultura gastronomica; il più delle volte ci può dire qualcosa sui gusti e sulle tecniche del cuoco o del gourmet che l’ha inventata.
Il passaggio dal libro di cucina alla quotidianità alimentare dei suoi potenziali lettori è funzione dei cambiamenti economici e sociali di questi ultimi. Non a caso, si considera l’Artusi una sorta di spartiacque nella storia della cucina italiana, non perché quel libro sia un testo tecnicamente rivoluzionario, ma piuttosto perché registra e accompagna le trasformazioni in atto nella società italiana a cavallo del XIX e XX secolo.
Invece raccontare il modello alimentare e la quotidianità a tavola degli abitanti dell’Italia, indipendentemente dalla classe sociale e dal luogo; serve a capire come siamo arrivati all’attuale cultura gastronomica italiana. Perché la storia non è semplicemente la scienza del passato, ma per avere un senso deve prevedere un costante movimento analitico dal passato al presente e viceversa. In particolare, la storia è la scienza del cambiamento, quindi per definizione non può esistere una storia immobile; lo storico non scatta istantanee, perché non avrebbe alcun senso farlo.
I ricettari non bastano
Ora, non vorrei esagerare affermando che o la storia è storia dell’alimentazione oppure non esiste, ma è chiaro che il tema del cibo si collega a talmente tanti altri aspetti e ad altre storie specifiche, che è difficile eluderlo. La storia dell’alimentazione, infatti, è strettamente collegata alla storia dell’agricoltura, alla storia della tecnologia, alla storia urbana, alla storia culturale e perfino alla storia delle religioni.
Pretendere di cogliere tutti questi aspetti e tutte queste connessioni da una raccolta di ricette pubblicata da un qualche professionista o da qualche ghiottone, che di solito avevano l’obiettivo di compiacere il loro datori di lavoro o di stupire i loro sparuti lettori sarebbe davvero paradossale.
La storia dell’alimentazione fatta sui libri di cucina finisce immancabilmente per spiegare troppo, perché c’è sempre una ricetta che dimostra come un determinato piatto abbia un’origine antica. E si badi bene che questo non riguarda solo quella italiana, ma riguarda tutte le cucine del mondo, perché dappertutto ci sono ricettari che possono attestare le origini antichissime di qualsiasi piatto.
Perché c’è sempre qualcosa prima e a forza di cercare gli indizi di una preparazione precedente che ricorda quella successiva, si arriva tranquillamente all’uomo di Neanderthal, o quantomeno a Oetzi, la mummia del Similaun, che per fortuna non scrisse ricette, ma come tutti sappiamo inventò lo speck 5.000 anni fa…
False tradizioni
Insomma, intorno alla cucina italiana e alla sua storia si è costruita una narrazione in gran parte falsa. Centinaia di prodotti tipici e di singole ricette vengono presentati come realtà immanenti, che esistono da sempre e che non hanno mai mutato la loro essenza, qualcosa che fa parte dell’essere italiani in un senso quasi genetico (anzi, a volte non ci si vergogna di tirare in ballo proprio la genetica…). Tutte queste storie possono essere il risultato di piccole o grandi forzature, di errori nella ricerca sui documenti o di vere e proprie invenzioni. C’è del marketing, certo, ma c’è anche il sintomo di un contesto culturale profondamente mutato.
Non è più nemmeno un tema di “invenzione della tradizione”, secondo la nota formula coniata dallo storico inglese Eric Hobsbawn, ma di “tradizione dell’invenzione”, nella quale la costruzione del falso storico è diventata un elemento portante. Dire che il Parmigiano si fa oggi come mille anni fa è cosa ben diversa dal dire che da quelle parti si produce formaggio da mille anni: nel primo caso si racconta una favola, nel secondo si fa ricerca storica. Il problema è che la ricerca storica, con tutte le sue domande e le sue incertezze, sembra essere oggi un impiccio, quando non un danno all’economia nazionale.
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