Poi una mattina si è svegliata, ha detto avrei preferenza di no, ed è diventata la tennista renitente. E dopo è stata la tennista sparita nel nulla, perché in un mondo di annunci ha scelto di farsi accompagnare dal silenzio. E tutti si sono messi a cantare: ¿Dónde estás, dónde estás, Camila? / ¿Qué pasó, qué pasó, Camila? / Te busqué, te busqué, Camila / Y no estás, y no estás, Camila. Sono uscite storie assurde di furti e fughe che si sono sommate ad altre storie non edificanti e, infine, Camila Giorgi è ricomparsa, è andata in tivù a spiegare che aveva lasciato il tennis e l’Italia perché era stanca, del tennis e dell’Italia e delle conseguenze. Senza nessun rimpianto per quello che tutti pensavano quando la vedevano: poteva esserci anche lei, poteva far parte della fotografia del tennis italiano vincente di questi mesi.

Ma lei ha staccato prima, perché era stanca e perché il tennis era solo una delle fasi della sua vita, e nemmeno quella principale. Sì, certo, ha avuto molto, ma sempre girando meno di quello che poteva, giocando al minimo, e mai per il titolo. Una specie di inconscia Bartleby del tennis. Avrei preferenza di no, rimuginato, detto a bassa voce, prima di ogni allenamento, viaggio, incontro, torneo e poi comunicato all'International Tennis Integrity Agency, che deve sempre sapere dove si trovano gli atleti per i controlli antidoping. Smetto, e basta. Tenetevi le palline. Nessuna conferenza stampa, nessun annuncio ufficiale. Una cometa. Chi l’ha vista, l’ha vista.

La boxe

Perché Camila non giocava per il tennis o per i suoi tifosi, o per l’Italia – quante polemiche per le mancate risposte alla federazione – ma giocava per sé stessa e forse un po’ per suo padre. Fin da quando aveva cominciato a sette anni, lasciando la ginnastica artistica e continuando ad amare segretamente la boxe, tanto che il suo sportivo preferito non è un tennista, ma un pugile, Óscar de la Hoya.

Sarà per questo che Camila con la racchetta picchiava, fino a sfinirsi. Ma poi c’era il resto. La moda, la vita, le amiche. Insomma, non era votata alla causa, anzi, la soffriva. Era brava, molto brava, arrivata al numero 26 nella classifica WTA nel 2018, quattro titoli, in particolare il WTA 1000 di Montreal, uno dei tornei più prestigiosi al di fuori dei Grandi Slam, un quarto di finale raggiunto a Wimbledon nel 2018 e un quarto di finale alle Olimpiadi di Tokyo 2020 e tante partite da tennista indomabile, imprevedibile.

Poteva andare oltre, ma l’impressione è che non l’abbia mai voluto veramente. Poteva essere una delle prime dieci del mondo, ma le è mancata la strategia prima ancora della volontà. La migliore definizione sul suo tennis l’ha data Flavia Pennetta, dopo essere stata sconfitta agli Open d’Australia: «Colpisce senza pensare, e non pensa ad altro che a colpire». L’impressione è che Camila sia rimasta una tennista spensierata, anarchica, ribelle che non ha voluto farsi educare dalle scuole, non ha accettato maestri né ex tennisti disposti a correggerle il difetto di attaccare come se non ci fosse un domani, e in effetti non c’era, e alla fine si è consumata con la sua stessa forza. Senza saperla irregimentare, darle una direzione. Si è avvitava, o come avrebbe detto Enzo Jannacci «son s'cioppaa», hai presente una a girare il mondo con le racchette, son scoppiata così e così.

Il personaggio

Camila sembra un personaggio di Rodrigo Fresán, scrittore argentino, una tennista bella e complicata, molto pop, che giocava un tennis aggressivo e istintivo tanto che per lei il problema come per Mina era finire, gli incontri. Li cominciava bene, ma poi si scocciava, e forse negli ultimi tempi si lasciava vincere come raccontò Andre Agassi in Open, perché non voleva essere lì, e alla fine è riuscita a non essere più dove la aspettavano: sui campi di tennis e in Italia.

La sua ultima partita è stata una clamorosa sconfitta contro Iga Swiatek a Miami. Ha avuto anche tanti infortuni che suo padre definisce psicosomatici, e non ha mai legato con nessuna tennista nel circuito, di cui non capiva il clamore: a cominciare dagli autografi, e senza nemmeno l’ideologia di Maurizio Montesi, calciatore che rifiutava gli autografi perché gli eroi appartenevano alla classe operaia e non alla leva calcistica.

Camila con Agassi ha in comune anche il problema mozartiano del padre, anche se Camila se lo accolla e lo difende. Ma il padre, Sergio, uno con tante biografie anche se a lui piace solo quella da reduce della guerra delle Malvinas, persa dall’Argentina contro l’Inghilterra negli anni Ottanta. Poi emigrato a Macerata facendo l’oceano Atlantico al contrario di suo nonno, dove poi è nata Camila, dall’unione con Claudia Fullone professoressa di storia e designer di moda che disegnava i vestitini a fiori o di pizzo che sembravano usciti dai film con Sharon Tate, con i quali Camila giocava i grandi Slam.

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Il suo mondo

Una famiglia eccentrica. Padre con i capelli da chitarrista degli Who, madre con la passione per la moda – poi accontentata con il marchio Giomila – che ha vestito la figlia e poi tutte quelle che volevano essere come sua figlia fuori e dentro i campi da tennis. Camila è stata quella che ha esaudito i sogni della famiglia riuscendo a far giocare il padre da allenatore. Sergio Giorgi quando giocava a calcio – anche qua le storie sono molteplici, lui dice calcio professionale, Camila parla di serie A argentina senza dire il club – sognava di essere allenato da Marcelo Bielsa poi è passato a immaginarsi come Bielsa allenando sua figlia e mettendosi a studiare il tennis.

Alla fine il romanzo sulla famiglia Giorgi avrebbe come cifra l’indeterminazione: fanno le cose ma con vaghezza, saltano dall’Argentina all’Italia poi Francia, Spagna e Stati Uniti per poi tornare in Argentina per sostenere Javier Milei, dalla racchetta alla motosega. E da Rodrigo Fresán si finisce in un romanzo di Osvaldo Lamborghini.

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Riassumendo Camila Giorgi e la sua strana famiglia di reduci, stilisti, calciatori e sognatori, pirati e artisti del fisco – ci sono due indagini quella recente in Italia e una vecchia in Floria per problemi fiscali – con lo scandalo dei falsi certificati di vaccinazione contro il coronavirus. Ma questo è il contorno. Lo spettacolo vero era vedere Camila in campo e suo padre sugli spalti. Camila che ricordava il tennis di Jeļena Ostapenko e Dominic Thiem, e suo padre che invece ricordava Klaus Kinski nelle sue esplosioni di rabbia – più di un arbitro si è spaventato prima ancora di lamentarsi – ma era spettacolo, il padre è molto naif e infatti si è subito iscritto alla storia di Milei, il nuovo che sbarella.

«Le ho proposto più volte nuovi allenatori. È stata in campo con alcuni di loro, ma dopo un giorno non li voleva più vedere. La definizione di “padre padrone” non mi dà fastidio. Possono dire di me ciò che vogliono». E ora al padre si è aggiunto il nuovo compagno di Camila, la ragione del suo voler vivere a Buenos Aires, Ramiro Marra, un deputato de La Libertad Avanza di Milei che ha postato una orgogliosa foto con lei per esplicitare la nuova vita che avanza. Quella dove Camila non rimpiange la racchetta e nemmeno gli Slam mancati, ma dove può alzarsi tardi, non allenarsi, non fare la borsa e soprattutto non partire. Dove prima c’era un tempo frenetico che in campo si accelerava, ora c’è un tempo fermo, dove l’immobilità la fa da padrone, e dove Camila può finalmente rilassarsi senza circo-lo tennistico.

Così, mentre l’Italia corre a iscriversi al club più vicino e compra racchette e cerca di colpire le palline spedendole sulle linee come fa Jannik Sinner o Jasmine Paolini, Camila si è liberata dal tormento del servizio, dall’ossessione della risposta. Lei che era stata il sogno segreto del tennis israeliano e argentino, e a lungo la tennista migliore italiana: l’anomalia, la speranza, la possibilità, in realtà era solo la cometa che annunciava l’avvento, quello degli altri e delle altre. Perché a lei non andava tanto di giocare. Sì, lo faceva, ma alla fine era un po’ stanchina come Forrest Gump e appena si è chiesta perché correva, ha smesso. Era stata il sogno degli altri: dell’Italia, della sua famiglia, ma non suo. Lei s’immaginava diversa, e ora s’è fermata a cercare di essere quello che davvero è.

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