C’era una volta il barone Belelli, discendeva da una nobile famiglia napoletana e aveva aspirazioni liberali. Succede che nel 1848 viene chiamato dalla storia, quando l’Europa si trova per la prima volta unita in quei moti che allontanarono Metternich dall’Austria, Luigi d'Orléans dalla Francia, che diedero vita alle Cinque Giornate di Milano e alla Repubblica Romana di Mazzini.

I primi a cadere, però, sono i Borbone di Napoli, che concedono la Costituzione (lo farà presto anche Carlo Alberto a Torino). Ma il fermento europeo non durerà troppo e per l’Italia sarà tutto rimandato al 1861, tredici anni dopo. Nel mentre, il barone Belelli viene condannato a morte in contumacia; fuggirà in Francia, per stabilirsi infine a Firenze.

Una diecina d’anni dopo i fatti, va a trovarlo un suo nipote da Parigi: è un giovane ricco, intelligente, dai modi eleganti e spiritoso quanto basta. Edgar Degas non è ancora impressionista (in realtà l’attributo non gli piacerà mai tanto, preferendosi realista); nel viaggio ritrae sua zia, sorella del padre, con il marito e le figlie. Questo quadro si trova al Musée d’Orsay di Parigi, ma in questi mesi le Scuderie del Quirinale di Roma ospitano tutta la costellazione di tele ad esso legate, sette in tutto, che raccontano questo itinerario di famiglia di Degas in Italia.

L’occasione è la mostra Napoli Ottocento, curata da Sylvain Bellenger (già direttore del Museo di Capodimonte), insieme a Jean-Loup Champion, Carmine Romano e Isabella Valente, aperta fino al 16 giugno prossimo.

Spaccato di una capitale

È uno spaccato sulla vita pubblica, scientifica e artistica della capitale di un regno nell’Ottocento. Si potrebbe dire un ricordo vintage applicabile anche altrove: si pensi solo a cosa dovevano essere Parigi, Vienna o Londra nello stesso secolo, per ragioni diverse. Eppure se quel «vedi Napoli e poi muori» ha qualcosa di vero, è perché non è di parte, ma è stato coniato da un tedesco, il tedesco Goethe.

E quindi, cos’ha di più Napoli, rispetto a tutto il resto? Un vulcano, ad esempio. Alla fine del Settecento le eruzioni del Vesuvio avevano messo d’accordo romantici e scientifici sul concetto di sublime. Il diplomatico inglese Sir William Hamilton lo scalò 65 volte, lasciando otto tomi scientifici delle sue ricerche. Nel 1801 viene inaugurato il Real Museo di Mineralogia, per incentivare questi studi e soddisfare la curiosità dei viaggiatori (è il primo in Europa).

A Napoli c’era poi un’Atlantide a cielo aperto, Pompei, scoperta nel 1748. Gli scavi divennero lapilli lanciati sull’immaginazione di tutti: scrittori, musicisti, artisti e soprattutto artigiani, che crearono un fiorente mercato di oggetti domestici ispirati ai reperti della città antica.

Quanto all’arte, Parigi guardava a Napoli e viceversa; c’erano molti scambi, ma le personalità più veraci sono quelle che rimangono in città. Tra queste, Domenico Morelli dipinge Gesù nel deserto come fosse Maometto, eppure non era mai stato in Medio Oriente. Il vero dei pittori napoletani è mettere buoi e caprette nelle loro tele a grandezza quasi naturale: del resto, natura e cultura erano da tempo coinquiline nei presepi, ricorda Bellenger.

Il paradigma di Genovesi  

Forse le cause di tutto questo zampillare sono da cercare nel secolo prima. Nel 1713 un feudo vicino Salerno dà i natali ad Antonio Genovesi, gesuita e filosofo un po’ eretico, che infatti perde presto la cattedra di metafisica; sarà però un bene, perché comincia a guardare in basso, verso temi più domestici. Parte con l’insegnamento di commercio e meccanica, che nel 1754 diventeranno cattedra di Economia, la prima di cui si ha notizia in Europa.

Il suo testamento scientifico sono le Lezioni di commercio o sia d’economia civile, imperniate su due concetti fondamentali, la felicità pubblica e il benessere collettivo. L’altra faccia di questa moneta è quella coniata da Adam Smith: anche lui filosofo, nato solo dieci anni dopo Genovesi, e teorizzatore di quella “mano invisibile” del mercato e della concorrenza che correggono le spinte individuali verso la ricchezza.

Questo diventerà il pilastro del pensiero economico occidentale, confinando le idee del gesuita al passato remoto, anche se postulavano una «contemporaneità tra ricerca di ricchezza e di senso», osserva Sabrina Bonomi, professore associato di Organizzazione aziendale all’Università eCampus e socia fondatrice della Scuola di Economia Civile.

A lei abbiamo chiesto se c’è un qualche spazio nel futuro, per questo modello: «Che il paradigma di Genovesi si stia diffondendo è dimostrato dal fatto che nelle aree dove è più forte l’insediamento di imprese ispirate all’economia civile, il tasso di disuguaglianza è più basso, perché queste sono inclusive e si curano del territorio».

Oggi emergono con prepotenza i limiti del modello mainstream, prosegue Bonomi, per cui il tema delle disparità sociali sarà uno dei grossi nodi a livello mondiale, non solo per l’Italia «che tuttavia ha l’indice di Gini (la misura della diseguaglianza nella distribuzione del reddito, ndr) come gli Stati Uniti: 0,53 su un massimo di 1, troppo elevato per un paese come il nostro».

Motore del progresso

Torniamo ora a fare due passi alle Scuderie, una cartolina animata dove il visitatore troverà molti cieli e fuochi (con alcuni capolavori come Turner, De Nittis, Fontana e Burri), ma soprattutto tecnica, per Genovesi motore dell’incivilimento. E allora, cos’è successo? Non c’è progresso per il Regno di Napoli senza «fede pubblica (o nel pubblico) (…) senza confidenza nel Governo, nei magistrati, negli altri cittadini», scriveva il gesuita nel Settecento (anche se la prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici del 1839, è ancora un primato partenopeo).

Ecco perché, riprendendo un po’ per scherzo il racconto di Gianni Rodari all’inizio di questo pezzo, se c’era una volta il Barone Belelli (nell’originale Lamberto), chissà che non ci possano essere due volte per l’economista Genovesi.

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