Lunghi, sono i trascorsi che mi legano a quest’arma bianca. Tutto iniziò al momento delle nozze, quando, insieme alla mia futura moglie, decidemmo di andare a vivere insieme.
Non so più come mai, ma in quello stesso periodo, per qualche motivo legale, venni convocato presso il Tribunale ordinario di Roma. Parlo della Procura di piazzale Clodio, che un tempo era soprannominata il “Porto delle nebbie”. Si trattava di un incontro puramente formale, talmente insignificante che io stesso, senza tenerne minimamente conto, lo avevo inserito nel girone infernale di miei frenetici giri quotidiani. Ed ecco il risultato.

Vestito da motociclista, carico di borse, libri e pacchi d’ogni sorta, affronto il passaggio del metal detector, il guado elettronico, la perquisizione virtuale, quando d’un tratto… D’un tratto scatta un allarme inaudito (ossia sin troppo udibile), un ululato accompagnato da luci lampeggianti. È un attimo, e tre guardie mi bloccano, lasciandomi stupefatto. Perché mai?

Forse perché, attraversando il magico corridoio della verità, avevo dimenticato di avere nella tracolla ben dodici coltelli! Stavamo traslocando, l’ho già detto, e li portavo dietro per cambiarli – non so più il motivo, li avevo comperati da poco, ma non mi convincevano. Naturalmente, nessuno volle credermi. La mia fidanzata, convocata d’urgenza, scuoteva la testa ormai amaramente rassegnata, mentre io, bloccato, la invitavo a spiegare la situazione. Macché. Già mi accingevo, docile, all’arresto, quando mi venne in mente l’unico alibi possibile. «Guardate nello zaino», li esortai. E quelli, per fortuna, mi ascoltarono.
Sorpresa delle sorprese! Proprio sul fondo, nascosti da una miriade di tovaglioli da tavola, brillavano ben dodici forchette dello stesso servizio. Per qualche remoto mistero etnografico, la loro presenza mi scagionò completamente e immediatamente. Nessuno è sospettabile, se gira con un set di dodici forchette. Nessuno può costituire un pericolo per la società, se gira con un set di dodici forchette. I coltelli (da taglio o da lancio che fossero) sparirono nel nulla, ma intanto io ero salvo. Allora mi venne da pensare al “Porto delle nebbie”: era proprio vero. Che nebbie! Da tagliare col coltello...

A mia discolpa

Quello del metal detector, comunque, fu un incubo che mi accompagnò per molto tempo. Adesso, per esempio, stiamo imbarcandoci per una vacanza, lungo una fila che porta al velivolo. Questa volta è la voce di un altoparlante a tuonare potente, severa come un monito numinoso. «Magrelli!», ripete: «Magrelli è pregato di presentarsi», e così via. Mi presento e mi imbatto nel direttore dell’aeroporto, furibondo e ridicolo: «Come osa imbarcare tra i bagagli una sacca con venti coltelli!» (nel frattempo il loro numero era considerevolmente cresciuto). Qui serve un passo indietro.

Durante le precedenti vacanze in montagna, avevo introdotto mio figlio bambino ai misteri della scultura su legno. Durante le soste nelle passeggiate, o a casa, aspettando la cena, trascorrevo con lui ore e ore a intagliare splendidi fusti, rami attentamente scelti camminando insieme. Poi, appunto, una volta soli, appartati, li lavoravamo “al coltello”. L’insegnamento fu indubbiamente proficuo, ma il fatto è che quel piccolo maniaco-ossessivo, polimorfo e perverso comme il faut, finì per amare più lo strumento che l’opera. Così, invece degli splendidi bastoni, alti e istoriati come la Colonna Traiana, cominciò a collezionare coltellini da incisione, vizio che i nonni contribuirono, felici, ad alimentare. Da qui la presenza del corredo con una ventina di esemplari – e che belli, col loro manico di legno o, addirittura, corno! Ricordo ancora una piccola roncola indispensabile per togliere via il primo strato di corteccia.
Chiunque avrebbe creduto a questa storia, chiunque meno lo zelante direttore dell’aeroporto, che impiegai quasi un’ora per convincere. Ma devo riconoscerlo: in quel caso, non avevo nemmeno una forchetta a mia discolpa.

Ah, tesserina, tesserina cara

Altro aeroporto, adesso è Fiumicino, e mio figlio non c’entra. È che un’amica, per il mio compleanno, mi ha appena regalato un coltello, beh, specialissimo. Mi è capitato spesso di girare con minuti tagliacarte, coltellini svizzeri o affini. In epoca pre-terrorismo e bibliograficamente arcaica, servivano a tagliare le pagine dei libri ancora intonsi (e io, preciso, lavoravo spesso in biblioteca).

No, qui non voglio affatto accampare scuse. Dico solo che spesso a me era utile un oggetto tagliente (oltretutto, da sempre, ritaglio ritagli di giornale).
Insomma, la mia amica, grande esperta di armi, mi dona, squisita, una tessera di plastica capace di trasformarsi in una taglientissima lama (fin troppo tagliente: dopo un po’, con le dita sanguinanti e martoriate, smisi di mostrare in giro il suo funzionamento). In breve, questa specie di origami letale, o bonsai malandrino, consisteva in un oggetto delle dimensioni degli attuali bancomat, il quale, debitamente piegato in tre parti, diventava un coltellino. Il segreto, credo, risiedeva nel fatto che la materia non era la plastica, bensì una formidabile porcellana giapponese.

Morale della favola, mi bloccano al solito metal detector. Questa volta, però, sono dolori, perché non mi accusano di aver “dimenticato” qualcosa, ma di averlo volutamente nascosto. Siamo cioè alla cosiddetta “lama occultata”, perché, in effetti, l’utensile incriminato stava tranquillamente dentro il mio portafoglio. E allora?

Ci metto sembra un po’ di tempo per capire – in genere, come sempre, davvero un po’ troppo. Ma quella volta, grazie a Dio, ci arrivai. Avevo compreso al volo l’interesse dei doganieri per il mio tesoro, sebbene, a quel mio tesoro, tenessi assai. Evidentemente, però, ci tenevano più loro, tanto che a un certo punto, disinvolto, glielo offro, così, come se niente fosse. «Ma tenetelo pure», gli faccio, e quelli, subito, rapaci e soddisfatti, che mi lasciano andare, trattenendo la preda. Ah, tesserina, tesserina cara…

Anche la tana, ti può essere tolta

Certo che Fiumicino è una vera fissa. Al vertice delle mie disavventure nell’aeroporto romano, sta la più scema delle scemenze: forbicine! Ancora metal detector, ancora la minaccia terroristica. Eppure lo sapevo, che se ti trovano addosso o nel bagaglio a mano qualcosa di metallico, te lo sequestrano. Il fatto è che viaggiavo a volte in treno, altre invece in aereo. Fu così che quel giorno caddi nel tranello e me le portai dietro. Ma non si trattava di un oggetto qualsiasi, bensì del più esoso, caro e bello (andrà pur detto) per la cura del corpo: forbicine! E tu mi vieni a dire che io dovrei buttarle, dopo quello che le ho pagate, e proprio ieri? Ma fammi ridere!

Gli addetti, tassativi, esigono lo scotto, e allora mi balugina un’idea: tornare indietro, inguattarle da qualche parte (solecismo senese per ac-quattare, celare), per poi ritirarle al rientro. Sì, ma dove? E qui, davvero, mi sono superato. Bagni, ho pensato subito, e ho iniziato a studiare nascondigli possibili. Alla fine ho trovato un immenso contenitore di carta igienica in metallo, quasi 80 cm di diametro. Ebbene, tra l’aggeggio dalla forma di parmigiano e il muro, si potevano inserire le forbicine. Lo feci, partii non so più per dove, ma tanto al viaggio non pensavo affatto. Pensavo solo al ritorno: le avrei mai ritrovate? Risposta: sì! In quel periodo mi spostavo spesso, vuoi in treno vuoi in aereo, e fu così che, per distrazione, la stessa vicenda finì per capitarmi almeno un altro paio di volte. Ma durante l’ultima di queste (Pollicino docet) il trucco smise di funzionare…

Avevo fatto tutto come al solito. Dimentico di lasciare le forbicine a Roma, mi scoprono, io esco, vado in bagno e le sistemo. Al ritorno, però, vari giorni più tardi, scoprii di averle perse. Mi spiego: in verità non persi loro, ma persi proprio i bagni. A sparire, insomma, furono le toilette in cui le avevo nascoste.
Mi sembrava di stare in un incubo, bonario, va da sé, eppure nauseante. Vado a destra, e il gabinetto è sparito. Chiedo in giro, e mi mandano a un altro, cento metri più in là: ma non è questo! Intanto sento il taxi con mia moglie che suona, suona disperatamente sperando che lasci stare e mi decida a raggiungerli. Io invece, caparbio, continuo a bussare, vorticando impazzito, domandando a chiunque: ma dove sono i bagni? Ma che fine hanno fatto?
Solo una settimana dopo, chiacchierando con un amico, scoprirò il mistero (chiedevo a tutti, non mi davo pace). Questo ingegnere di Aereoporti di Roma mi rivelò finalmente l’arcano: l’azienda aveva deciso di rifare ex novo tutte le toilette. Crudele insegnamento! Non ti fidare mai: anche la tana, ti può essere tolta…

Una rapina proletaria

Adesso torno indietro, e ho appena diciott’anni, o meglio, diciott’anni di piombo. Siamo difatti nel 1975. Nell’estate dell’anno precedente, in ospedale, avevo fatto amicizia con un coetaneo speciale, viaggiatore, sempre di buon umore, un ragazzo solare. Suo fratello minore, invece, pur affettuoso e dolce, militava nella sinistra più violenta. Per questo, un giorno, decidemmo di accompagnarlo sotto le mura di Regina Coeli. Tutti i romani conoscono le leggende dei carcerati che, dalle finestre, lanciano i loro richiami per i compagni fuori, sul Gianicolo o in mezzo alla strada. Ma un conto è sapere la storia, un conto è sentirla davvero. Così ci distraemmo, e restammo di sasso quando fummo raggiunti da una volante.
Niente di grave, certo, se non fosse stato per quel fratellino strano. Infatti, mentre io e il mio amico ci giriamo verso la polizia, quel matto pensa bene di tirare fuori il suo coltello a serramanico, buttandolo sotto un’auto.

Naturalmente, come in ogni film che si rispetti, la manovra non andò a buon fine, e invece di finire sotto un veicolo in sosta, l’arma rimase giusto in mezzo alla via, come una prova inconfutabile e luccicante della nostra colpevolezza. Ma come in ogni film che si rispetti, gli agenti non se ne accorsero. Loro no, ma noi sì, e da quella volta, terrorizzati, sospendemmo le visite alla prigione. Quanto al ragazzo, verrà ucciso poco dopo, durante una rapina proletaria.

A serramanico

Nuovo scenario, Londra, ospite di un baronetto. Lord Hugh è simpatico, e, soprattutto, possiede uno dei pochi accenti inglesi comprensibili alle mie orecchie. Da qui la mia sconfinata gratitudine. Ora racconta di un suo remoto viaggio in Sicilia. “Sicilia”… Per lui, forse, il nome di questa regione arcaica, bella e violenta deve suonare come per noi “Mongolia”. Ebbene nelle terre della mafia, pare che Hugh fosse seguito da qualcuno. Allora vede un caffè, si siede e aspetta. In effetti, qualcuno gli si accosta per scrutarlo attentamente. Freddo e sicuro come un agente segreto, lui lo invita al proprio tavolo. Stanno vicini e tacciono, fino al momento in cui, tutto d’un tratto, il britannico estrae dalla tasca un coltello a serramanico. Pare che il siciliano scappò via. Capito come si deve fare in quelle contrade?

Io lo guardo ammirato. Che coraggio! Ma anch’io, mio caro Hugh, ho le mie cartucce. Come molti italiani, infatti, giro armato. Mi guarda stupito, a sua volta. Davvero? È un attimo, e con la sua stessa destrezza, estraggo dalla tasca un pettinino, un pettinino di plastica, ma anche lui a serramanico.

Non ho ancora smesso di correre

Prima di avere la moto, per andare a nuotare, mi accompagnava in piscina il sarto di mio padre, il sarto di famiglia. Perché mai un sarto-autista? Ma “sarto”, in francese dà tailleur, ossia “colui che taglia”, tanto che tailleur de pierres significa “scalpellino”, “tagliapietre”. E state un po’ a vedere se non rischiai di finire tagliato!
Il sarto non veniva a prendermi a casa; ci davamo appuntamento a metà strada, verso sera. Così, una volta, mentre attraverso la piazza buia e vuota di San Pietro (ché allora si poteva, si poteva fare praticamente tutto, perché la città era sempre aperta, spalancata a chiunque volesse percorrerla), mentre attraverso la piazza, dico, mi si avvicinano due ragazzotti col coltello. Col coltello, terrore dei terrori!

Riuscii a scappare dandogli una borsata, ma in pratica, da allora, non ho ancora finito di correre.

Tac

Pocanzi ho definito il metal detector come «il magico corridoio della verità». Anche la Tac, però, non scherza mica. Secondo Wikipedia, la tomografia assiale computerizzata funziona in questo modo: «L’emettitore del fascio di raggi X ruota attorno al paziente e il rivelatore, al lato opposto, raccoglie l’immagine di una sezione del paziente; il lettino del paziente scorre in modo molto preciso e determinabile all’interno di un tunnel di scansione, presentando a ogni giro una sezione diversa del corpo». In breve, questa macchina ti scruta, o meglio, ti fa a fette. Per leggere il corpo, infatti, ti deve fare a fette, lo fa a fette proprio come uno scalco medievale, il servitore incaricato di trinciare le carni e servirle ai convitati. La Tac, insomma, è un coltello vero e proprio.
Così, in questo momento, sono sdraiato dentro il suo abitacolo. Mi sento come un libro, un libro letto (magari con le pagine ancora da tagliare). Sento un rumore assordante. Sono i motori d’un jet in partenza. Sono rumori di onde. Ora sono il rumore di un jet in arrivo.

Mi tennero nel tubo troppo a lungo, e d’altronde, se c’è una cosa che non capirò mai, è l’inveterata abitudine dei medici a voler inutilmente e scioccamente rassicurare (ma forse sarebbe meglio dire “illudere”) i loro pazienti. Infatti, anche in questo caso, alla mia richiesta di sapere quanto sarebbe durata la prova, lo specialista replicò tranquillizzante: «Neanche dieci minuti». Sia chiaro, la mia ansia era fondata, visto che di lì a poco sarei stato infilato in un cubicolo come un abbacchio al forno, un pasto congelato nel microonde, un cadavere dentro il proprio loculo.

Non c’è bisogno di soffrire di claustrofobia, per nutrire qualche preoccupazione al riguardo. «In ogni caso», aggiunse il dottore, «avrai in mano un campanello con cui avvertirci per sospendere l’analisi». Come no!, pensai tra me e me. In questo modo, dovendo ripetere la tortura, sarò costretto a tornare tra una settimana fino a quaggiù, per ricominciare da capo e replicare la sofferenza. Altro che “Lascia o raddoppia”: piuttosto, direi, “raddoppia o quadruplica”... Non per niente, dopo questa atroce esperienza, per qualche giorno diventai claustrofobico. Non potevo più nuotare a faccia in giù, e subito tiravo su la testa, soffocando soffocato.

Ma torno dentro al cunicolo. Dieci minuti, diceva, ed ecco superata la mezz’ora, ed ecco sopraggiunto lo sgomento, ed ecco arrivati i cinquanta minuti. Tutto d’un tratto, mi travolge il panico: il rombo del macchinario, gli strani ticchettii, suoni bizzarri, da bestia seviziata, mentre sono legato in un cunicolo senza via d’uscita. Non ce la faccio più, sto per gridare, peggio, sto lì lì per pigiare l’infame pulsante, quando improvvisa sboccia la soluzione.
Nell’angustia di quell’abitacolo, atroce come la Vergine di Norimberga (macchina da tortura di forma antropomorfa che racchiudeva il condannato al suo interno), ho cominciato a recitare versi. Versi, come un rosario da preghiera. Sono riemersi da ere arcaiche, la terza elementare di oltre mezzo secolo fa, ma sono riemersi, questo è il punto, per salvarmi.

La processione è arrivata pian piano: prima un Rilke nella versione di Diego Valeri: «Nel colmo della notte, a volte, accade / che si risvegli come un bimbo, il vento». Poi Petrarca: «Morte bella parea nel suo bel viso». Infine Dante, ma qui siamo al liceo: «Li miei compagni fec’io si aguti / con questa orazion picciola al cammino...».

Sembrerà incredibile, ma così facendo, attaccandomi a quelle sillabe, a quella sillabazione, riuscii a resistere fino alla fine del supplizio. Come a una bombola d’ossigeno, mi viene ora da pensare, o come quando James Bond bacia la bella, facendole dono del proprio respiro.
Si chiama “mantra”, e sta a indicare una formula sacra da ripetere continuamente. Per i fedeli nell’induismo e del buddismo tantrico, si tratta di una pratica meditativa; per me rappresentò una forma di resistenza attraverso la parola. Fu solo solfeggiando quelle strofe che attraversai indenne il buio tunnel magnetico. La vera risonanza, insomma, fu poetica, con buona pace di chi ritiene ancora che imparare a memoria i versi sia inutile. Tutto sta a mettersi d’accordo: mai come allora compresi l’importanza di un giacimento fossile interiore, cui attingere forze segrete in una oscura inconsapevolezza.
Fatto a strati dalla lama-Tac, affettato salame, superai quella prova-coltello grazie ad alcuni maestri del verso, e in questo modo diedi una risposta all’ormai secolare interrogativo di Jean Cocteau, che si chiedeva e richiedeva perplesso: «So che la poesia è indispensabile, ma non so a cosa». Io invece sì. Figlio di un medico, posso dire, infatti, che è indispensabile per sopravvivere ai medici.

© Riproduzione riservata