Questo è un nuovo numero di Cose da maschi, la newsletter di Domani dedicata a nuovi e antichi paradigmi di genere. Per iscriverti gratuitamente alla newsletter, in arrivo ogni mercoledì pomeriggio, clicca qui
Sono appena tornato da una conferenza accademica, di quelle cui fino a un paio d’anni fa partecipavo due o tre volte l’anno e che ora, sebbene la pandemia non accenni a risolversi davvero, tornano improvvisamente possibili – e improvvisamente sembrano cose assurde.
Assurda la moquette fiorata dell’albergone fantasmagorico di Baltimora, assurdo condividere un airbnb in via Shakespeare (!) con due compagne del Cosmopolitan Italies Collective che non avevo quasi mai incontrato di persona (le brillanti professoresse Kenyse Lyons e Alessia Valfredini, cercatele!), assurdo ritrovarsi in cinquecento in una sala da ballo per sentire Judith Butler, introdotta dalla giovane italianista Marta Cerreti, ed essere immediatamente scacciati perché, in effetti, siamo troppi. Assurdo anche rivedere, in carne e ossa, studentesse e studenti che ormai sono al dottorato, e fanno faville riempiendoti di un orgoglio il cui latente paternalismo ti rimproveri: Lucas René Ramos ad esempio, che a Baltimora ha pronunciato un talk chiarissimo e informatissimo su questioni di cui aveva scritto qualche mese fa per Cose da maschi, o Taylor Yoonji Kang, che teneva un seminario su Walter Benjamin e Aby Warburg.
Ma soprattutto assurdo discettare di gender studies, futuro dell’italianistica, ottave tassiane e romanzi russi mentre sul telefono trillano le notifiche delle ultime terrificanti notizie dall’Ucraina, sapendo che a sera, ognuno nella propria stanza, ci si ritroverà a scrollare gli stessi video, gli stessi post, le stesse (così spesso inaspettatamente cretine) opinioni sulla app del New York Times.
Angosciarsi in privato, esibendo con gli altri calma o distrazione, è forse una cosa americana (è forse una cosa bianca e americana) più che da maschi. Ostinarsi a parlare di poesia o di linguistica al cospetto di conflagrazioni che dovrebbero ammutolire mi pare invece più europea – penso alle grandi voci filosofiche del dopoguerra, del dopo-Auschwitz; penso a chi contraddiceva quei versi che non ho mai amato di Quasimodo («E come potevamo noi cantare», ma noi chi, Salvatore?).
Penso anche, ormai sempre, a Fortini, che mentre scriveva il libro da cui ho citato una poesia nella scorsa newsletter sapeva di essere assediato da una malattia, sapeva che tutti i suoi ideali e le sue speranze politiche andavano ad affogare nella bocca di un mostro politico nato nell’anno in cui lui moriva (il 1994, primo governo Berlusconi), sapeva che le guerre imperialiste dell’occidente avrebbero continuato a cadere a strascico sul mondo dopo la fine della Guerra fredda – che poi, come ci pare un po’ oggi, non era forse finita neanche quella.
A Baltimora ho portato Composita Solvantur e, con un’amica italianista-non-italiana che non vedevo dal 2019, mi sono messo a rileggerlo ancora. Ho deciso, in quella pausa, che avrei di nuovo ricopiato uno dei testi delle Sette canzonette del Golfo, prodigiosamente presente, per chi legge Cose da maschi, e dunque eccolo qui:
Come presto è passato l’inverno
fra clamori terribili e vani!
Le battaglie di popoli estrani
che mai sono in confronto all’eterno,
all’eterno degli ippocastani
che dai ceppi si industriano lenti
a sperare germogli lassù?
E tu assorta graziosa annoiata
sul terrazzo, in pigiama pervinca,
forse chiedi al mattino che vinca
come il sole la bruma ostinata
così il bene sui campi cruenti?
Ma è domenica, è marzo: non senti
che un altr’anno, e il suo peggio, svanì?
Con la mia amica leggevamo ad alta voce queste domande marzoline di Fortini sul passare del tempo e sugli echi della guerra all’ora di cena, in una delle stanze in cui avevamo appena ascoltato colleghe e colleghi esporre le loro ricerche.
Le stanze in cui si tengono le sessioni di una conferenza come quella a cui ho partecipato in Maryland sono un po’ sempre uguali. Ci sono tre o quattro file di sedie, uno schermo con proiettore, un tavolo per chi interviene. E poi c’è un podio. In teoria il podio è lì perché, a turno, ci si vada a pronunciare il proprio intervento. Spesso però questo non succede: chi parla evita il piedistallo e si mette magari a sedere sul tavolo, o resta nella sua sedia. C’è chi addirittura chiede di spostare le sedie in un cerchio (dando gran fastidio agli organizzatori), e chi se ne frega del fatto che gli altri sono andati a parlare al leggio, e si mette invece a leggere i propri appunti in mezzo alla stanza, in piedi.
Penso di aver prestato così tanta attenzione ai podi perché il presidente ucraino Zelensky, nelle immagini e nei video dei suoi discorsi che tornano di continuo sui media americani, è quasi sempre dietro a un podio. Questa settimana perciò ho scritto di un altro oggetto collaterale al conflitto in Ucraina: il podio appunto, protagonista del pezzo che trovate qui sul sito di Domani e che uscirà in edicola sabato sul giornale di carta.
Parto in realtà dai piedistalli delle statue, dal podio del grande storico dell’arte Roberto Longhi (come lo ricorda Pasolini, che fu suo allievo), e dalla mia incapacità di usare il leggio rialzato quando faccio lezione – anche se alle conferenze, devo ammettere, ci salgo.
La lettura della narrazione visiva verticale di Zelensky è il cuore dell’articolo, che però tocca anche i monumenti politicizzati in America, quelli animati del surrealismo italiano, Schopenhauer, de Chirico, e i monaci anacoreti della Siria e della Russia medievale, che abitavano in cima a una colonna ma non erano soli come gli eroi (di marmo, di bronzo, o di rassicuranti ideali) messi sul piedistallo.
Come sempre, Didier Falzone accompagna simili ragionamenti con un’illustrazione anche più stratificata, in cui il monaco stilita parla da un capitello significativamente poggiato non su un fusto tubolare, ma su un dilungato parallelepipedo da rassegna stampa, con il microfono e la lucina tipiche del podio da storico dell’arte che, nel buio, deve proiettare le sue diapositive.
Mi delizia ospitare nella rubrica un secondo articolo che tratta proprio di questioni di cui ho discusso animatamente alla conferenza di Baltimora. Lo ha scritto Johnny Bertolio, che ha studiato letteratura a Pisa e a Toronto e collabora con l’editore Loescher per curare nuovi manuali scolastici attraverso cui colmare lacune che, per oltre un secolo, hanno dato l’impressione che l’ora di lettere fosse una cosa da maschi.
L’articolo di Johnny, che trovate qui su Domani, è un breve viaggio nel problema del canone letterario: uno strumento fondamentale negli studi umanistici, giacché non si può leggere né insegnare tutto, che però è stato adoperato come una stele di marmo invece che come il proteiforme caleidoscopio cangiante che può gioiosamente essere.
Johnny non si limita a sfasciare apocalitticamente le gerarchie e le genealogie che la storia della letteratura ci ha tramandato, né elude i problemi fondamentali che simili tradizioni si portano dietro dalla loro origine (dove sono le donne? dove sono gli amori, le famiglie, le condotte non conformi? soprattutto: quando arriveranno finalmente sui banchi di scuola i progressi che l’accademia e la divulgazione già abbracciano da tempo?).
Ci regala invece un punto di vista sia pratico che teorico, facendosi forza di un’esperienza importante sul campo. Ha infatti da poco pubblicato un articolato strumento didattico dedicato a chi studia (e chi insegna) alle scuole superiori: Controcanone: la letteratura delle donne dalle origini ad oggi. Questa ottima antologia storica va ben al di là dei soliti (pochi, e comunque marginalizzati) nomi che si trovano già nei libri di scuola, e costruisce una nuova tradizione invece di demolirne altre. È un’iniziativa lodevole, che conto di mettere a frutto nei miei corsi universitari con studentesse che imparano l’italiano letterario da adulte e subito si trovano a confronto con un canone ancora basato su valori antiquati. Non è necessario ignorare Dante per leggere bene Caterina da Siena, o sostituire Petrarca con le petrarchiste più o meno brillanti che lo hanno seguito.
Ecco, sono tornato a parlare di poesia mentre cadono le bombe, che vergogna. Ma per citare un verso (appunto petrarchesco) della poetessa che mi ha insegnato Fortini, Biancamaria Frabotta, anche di vergognarmi mi vergogno.
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