Cosa incuriosisce uno studente di vent’anni? Domani inizia una collaborazione con un gruppo di studenti di economia dell’Università Bicocca di Milano. L’obiettivo è conoscere la loro opinione sull’attualità e sul mondo che raccontiamo: per questo motivo ogni settimana pubblicheremo i loro commenti agli articoli e ai temi che li hanno colpiti di più. Qui trovate tutti gli interventi pubblicati finora. Questa settimana i tre articoli scelti da loro sono:
La caccia alle Streghe ora è su Facebook
Oggi sembra quasi che postare e twittare le vecchie e care bufale non sia più un mero atto di goliardia, ma quasi un lavoro. Basta talmente poco per creare un caso mediatico usando i social che ormai il mondo ne è pieno. Instagram, Facebook e tutte le altre “vetrine digitali” sono divenute il posto perfetto per campagne elettorali e campagne denigratorie di qualsiasi genere, e pullulano di questi messaggi dalla dubbia veridicità.
Se una volta però questo non era un grandissimo problema, oggi la situazione è nettamente più critica, data l’elevatissima diffusione della tecnologia e l’utilizzo dei social media tra le diverse fasce d’età. Questa “piaga” dell’informatizzazione capillare sta raggiungendo sempre più persone di età diverse: il target sono le nuove generazioni, bambini che nascono con in mano un cellulare e senza controlli adeguati da parte di adulti o altre figure responsabili, ma è anche da notare come le “vecchie” generazioni stiano entrando nel “nuovo millennio”, spesso spinti da figli e parenti più giovani.
La pandemia poi non ha fatto altro che giovare a questo fenomeno, dato che per via della distanza, i dispositivi elettronici sono diventati più che mai bene di prima necessità e unico metodo di collegamento. Il copy-paste trend, come riporta anche l’articolo che stiamo commentando, è poi un’altra piaga della nostra società: se una sola notizia su tre è originale, e le altre due non sono altro che una riproposizione di quella, è logico pensare che anche le famose fake news rientrino nel fenomeno. Tenendo conto del fatto che poi le notizie originali potrebbero essere rimaneggiate e riproposte con termini sensazionalistici o altre modifiche apportate per ottenere più click, è possibile che anche informazioni veritiere ed originali possano diventare fuorvianti, o possono rispecchiare una realtà distorta.
A compromettere ulteriormente la situazione è il grado di preparazione della popolazione coinvolta, spesso insufficiente per diversi motivi, che siano essi legati all’età (bambini e anziani in particolare potrebbero essere “vittime perfette” del fenomeno) o che siano essi legati a una carenza di investimenti nel capitale umano, come nel caso americano riportato dall’articolo.
È così che nascono vere e proprie “cacce alle streghe”. Intere schiere di utenti, caduti nel tranello, combattono a suon di tag, commenti ed “inoltra”, annientando qualsiasi “oppositore” che cerca di farli ragionare e sottolinea la falsità del post originale.
La bufala iniziale scatena uno spaventoso effetto domino che si propaga senza freni efficaci, raggiungendo anche l’eventuale vittima del post, causando ondate di odio o pubblicità negativa, a seconda dei casi.
In conclusione, possiamo valutare come questa “caccia” sia nostro malgrado inevitabile, salvo non vengano introdotte soluzioni più efficaci e drastiche da parte dei Social e dai Big dell’High-Tech, oltre che dalla popolazione stessa.
Qualche soluzione ad hoc è già stata adottata (basti pensare al nuovo blocco introdotto da Instagram sulle notizie fasulle e forvianti), ma la strada da percorrere per giungere a un web privo di queste problematiche è ancora lunga e tortuosa. Minacce quali il Deep Fake (programmi che vanno a riprodurre fedelmente movimenti, mimiche facciali e voci delle persone, utilizzati per “far dire loro qualsiasi cosa”) incombono sul mondo dei social, e potrebbero addirittura arrivare a causare ingenti problemi e faide tra gli stati stessi, se non prontamente arginate.
L’indifferenza non è la soluzione alla violazione dei diritti umani
L’Unione europea si macchia in modo più o meno palese soprattutto della violazione dei diritti umani in ambito migratorio. Sembra che lo spirito compromissorio che governa le democrazie europee sia solo un’interfaccia. Tuttavia vi sono molte altre organizzazioni sovranazionali, tra cui l’Onu, che si rendono protagonisti di episodi di violazione dei diritti umani.
Dallo Statuto delle Nazioni unite emergono chiaramente i principi fondamentali di questa organizzazione: il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, la promozione della pace come unico mezzo di risoluzione di eventuali controversie tra stati, lo sviluppo di una strategia internazionale di cooperazione dal punto di vista economico e sociale, e garantire il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Questi obiettivi, ed è meglio dire obiettivi in quanto non ancora raggiunti a pieno, sono assolutamente lodevoli e che dovrebbero essere alla base di una pacifica convivenza tra esseri umani, in quanto tali. Principi il cui rispetto bisognerebbe dare per scontato. Nella realtà dare per scontato il rispetto dei diritti umani e non prevederne un riconoscimento formale e poi non verificarne la sostanziale applicazione, sarebbe molto pericoloso. Nel nostro animo, purtroppo, il confine tra istinto animale e coscienza talvolta non è così chiaro e si sarebbe tentati dal valicarlo per affermare gli interessi individuali facendo uso della violenza e, dunque, facendo prevalere l’io animale, nonché permettendo la violazione di un diritto altrui e di chi agisce. Di chi agisce perché avviene un abuso della propria libertà: il dovere di contenere ciò che si vorrebbe fare è fondamentale per garantire agli altri le stesse libertà. Coerentemente con quanto sancisce nel suo trattato, l’Onu si propone anche di portare a termine missioni volte a vedersi applicati i diritti umani e le libertà fondamentali.
In alcuni paesi i diritti umani sono ancora lontani dalla vita comune. Per violazione di diritti umani non serve pensare a chissà che cosa: l’uso della pena di morte ancora in vigore come mezzo di fare giustizia ne è uno degli esempi più eclatanti. La cosa che potrebbe suscitare ancor più stupore se non ribrezzo è il fatto che l’ordinamento giuridico di un paese sviluppato sotto tutti i punti di vista, come potrebbero essere gli Stati Uniti, preveda tuttora, nel 2020, la pena di morte.
C’è anche da dire che la violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, nella realtà, ci circonda, in modo del tutto invisibile (o meglio, per chi non vuole vedere). A chi non è capitato di vedere delle donne che si prostituiscono ai cigli della strada, di rado volontariamente, ma spesso costrette dai cosiddetti “protettori”? Talvolta, soprattutto nei paesi più arretrati economicamente, è un fenomeno che riguarda anche i minorenni. Ѐ, dunque, possibile affermare di come il rispetto dei diritti umani sia un’utopia piuttosto che una garanzia. A proposito di ciò si può dire che anche nell’utopico gregge bianco dell’Onu vi sono delle pecore nere. Infatti lo sfruttamento della prostituzione, soprattutto minorile, durante le missioni umanitarie di tale organizzazione sono all’ordine del giorno.
Tanto per citare alcuni dati statistici, secondo il “Rapporto di valutazione sugli sforzi di assistenza in materia di sfruttamento e abusi sessuali legati al personale delle missioni di pace” sono state registrate ben quattrocentottanta denunce di abusi dal 2008 al 2013, senza considerare quegli episodi sui quali è stato steso un velo d’omertà. Per quanto riguarda l’ambiente sociale del dopoguerra bosniano questo fenomeno viene rappresentato molto bene nel film drammatico del 2010 “The whistleblowe”, regia di Larysa Kondracki. Vedere un film talvolta è più utile per immaginare, seppur minimamente, di come i paletti morali possano saltare velocemente. Ciò emerge con più chiarezza visiva da un film piuttosto che scorrere in modo, magari anche distratto, alcuni dati di carattere statistico. Nel 2010 Margot Wallström, rappresentante speciale dell’Onu per la violenza sessuale nei conflitti ha definito la Repubblica Democratica del Congo la capitale mondiale dello stupro, inoltre è la nazione in cui le denunce per stupro da parte dei caschi blu sono le più numerose. Victoria Fontan, ex docente dell’Università della pace della Costa Rica, ha condotto una ricerca per quanto riguarda gli abusi sessuali dei soldati dell’Onu nella Rdc. Ha scritto molti articoli sulla stampa colombiana e di altri paesi sui traffici sospetti in un hotel che sarebbe poi diventato un hot spot della prostituzione di ragazze minorenni per i dipendenti dell’Onu. Ciononostante non è stata mai realmente ascoltata. Carman Lapointe, all’epoca sottosegretaria dell’ufficio delle Nazioni unite per i servizi interni, affermò che in base a tali articoli era stata condotta un’inchiesta su questi abusi ma non c’erano stati abbastanza elementi per suffragarla.
È chiaro, dunque, su come sia stato steso un forte velo di codarda omertà su questi fatti. L’albergo esiste tuttora tanto da avere anche un’ottima recensione sul sito Trip Advisor. Questo è solo un esempio relativamente piccolo riguardo a tutti gli altri casi che si sono verificati, senza considerare tra l’altro quelli neanche risaputi.
Fortunatamente nel gregge le pecore non sono tutte nere. Infatti, alcuni dipendenti dell’Onu hanno tentato di denunciare queste disfunzioni le quali li hanno accompagnati verso la strada del non rinnovo dei contratti. La Governement acountability project, una ong che protegge i caschi blu e fornisce loro assistenza legale, nel 2014 affermò che il novantanove per cento dei quattrocento membri del personale che chiesero il sostegno all’Onu non lo ricevettero mai.
La questione degli abusi, dunque, è grande e anche poco chiara sotto alcuni aspetti. La stessa Onu rimane vaga nel fornire certe risposte a questi interrogativi. Innanzitutto afferma che c’è un problema relativo all’identificazione dei colpevoli a causa del grosso quantitativo di personale da gestire in ogni missione. Ne viene assunto continuamente di nuovo e altrettanti se ne vanno creando così un effetto redistributivo. Il che rallenta le indagini, se non le devia. L’organizzazione dei caschi blu, inoltre sottolinea di come non esiste un inquirente internazionale tale da affidare ciò ad una “giustizia internazionale”. Le pene relative a questi abusi, infatti, sono affidate agli stati di cui l’imputato è membro che talvolta tendono a prendere sottogamba la cosa anche per tutelare la propria immagine e quella dell’organizzazione stessa. Quindi è evidente di come la giustizia internazionale, in termini collaborativi, non faccia correttamente il suo dovere. Anche all’interno delle “truppe” dei caschi blu emerge una certa omertà. A proposito di ciò si può citare lo stupro di un ragazzo disabile di tredici anni da parte di soldati pachistani, in missione di pace ad Haiti nel 2013. Il ragazzo poco dopo stranamente sparì. I colpevoli vennero arrestati ma una fonte di alto livello dell’Ufficio investigativo interno ha confidato alla rivista “Internazionale” che il comandante della missione aveva ordinato lui stesso ai suoi sottoposti di ucciderlo. La giustizia è po’ una zona grigia dell’Onu si direbbe. Ebbene, sono proprio questi gli episodi che tendono a suscitare disprezzo negli animi degli uomini, che per paura, ma anche per interessi individuali tendono ad essere contro alla collaborazione, soprattutto globale, tra Paesi. Non si dimentichi che queste organizzazioni, nella loro imperfezione, sono nate anche per evitare degli scontri a livello mondiale (si pensi alla vecchia Società delle Nazioni, all’Unione Europea, ecc…). Sono nate per degli scopi per i quali bisogna ed è importante continuare a battersi (i diritti umani in primis). Sia individualmente in quanto cittadini attivi, ma anche e soprattutto collettivamente, in quanto Paesi del nuovo millennio. Questi terribili fatti, che non avrebbero dovuto e non dovrebbero succedere non devono essere giustificati dall’individualismo di ognuno. Come la senatrice Liliana Segre ribadisce continuamente è più comodo voltare la testa dall’altra parte lasciando cadere tutto nell’indifferenza: quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore.
Costo-opportunità di fare figli
La settimana scorsa abbiamo affrontato il tema del capitale umano, invece questa settimana vorremmo approfondire uno degli aspetti più importanti che è il tasso di natalità e i vari motivi per cui i giovani preferiscono (purtroppo) di non fare i figli o almeno fare meno figli possibili.
Come è chiaro in questo grafico, la penalità salariale è un argomento importante da considerare quando parliamo di due Macro argomenti:
- La Parità di genere.
- Il Calo dei numeri dei figli/ anno.
Come ci sottolineano gli autori, Alessandra Casarico e Salvatore Lattanzio, ci possono essere due ragioni: le mamme riducono la propria offerta di lavoro, diminuendo il numero di settimane lavorate o passando a contratti part-time a parità di settimane. Oppure possono ricevere salari settimanali inferiori: si spostano in imprese che pagano meno, magari in cambio di maggiore flessibilità, o occupano posizioni professionali meno remunerative all'interno della stessa impresa. Secondo i dati, a 15 anni dalla nascita di un figlio, oltre i due terzi della child penalty (il 68 per cento) sono spiegati da una riduzione dell'offerta di lavoro delle mamme rispetto alle non mamme.
Guardando da un punto di vista economico, le madri lavoratrici devono rinunciare a una percentuale alta dei loro salari per poter trovare una via di mezzo tra essere madre e lavoratrice. Per cui deduciamo che fare i figli a parte i costi per le famiglie, ha pure degli effetti diretti sull’economia di un paese.
© Riproduzione riservata