I partiti francesi sono in piena mobilitazione per il voto di giugno. Con una estrema destra in ascesa, i macroniani che arrancano e un fronte progressista che si perde in divisioni interne, la Francia sembra un test in vitro degli scenari che vedremo in Ue
Con un’adesione al Rassemblement National, c’è una bandiera francese in omaggio. L’offerta è stata prorogata fino a fine marzo. Ogni partito francese lo fa a modo suo, ma tutti sono pienamente mobilitati per le europee di giugno.
La Francia – con una estrema destra in ascesa, i macroniani che arrancano e un fronte progressista che si perde in divisioni interne – sembra un test in vitro degli scenari che vedremo in Ue dopo il voto. I sondaggi segnalano che la divaricazione tra il partito di Marine Le Pen e quello di Emmanuel Macron non fa che ampliarsi.
Il blocco macroniano resta tutto sommato stabile, ma è appunto una linea piatta, che dalla scorsa estate a oggi resta attorno al venti per cento nei sondaggi, mentre il Rassemblement da luglio a oggi è lievitato, dal 25 al 30 per cento. A fine febbraio era al 29, segnala l’istituto Ifop.
Macron in guerra
E allora ecco il presidente che si barcamena come può. Gonfia i muscoli, in tutti i sensi.
Li gonfia facendosi immortalare dalla “ritrattista di corte” Soazig de la Moisonnière, che lo fotografa mentre fa pugilato, con sudore, muscoli e vene in vista, e un bianco e nero che accentua il tono epico.
Gonfia i muscoli, Macron, anche politicamente parlando: ventila truppe sul terreno in Ucraina, battezza una «economia di guerra», e più in generale si confeziona come presidente di guerra, scommettendo anche sul rally’round the flag effect, cioè quell’effetto di trascinamento del consenso sul leader da parte di una nazione che si sente in pericolo.
In realtà dentro la formazione macroniana era talmente chiaro già da tempo che il vagone in corsa per le europee si sarebbe schiantato con un crollo elettorale, che tra i maggiorenti del partito, più che inseguire un ruolo da capilista, c’è stato il fuggi fuggi generale. Così ha avuto la sua occasione l’eurodeputata – prima ignota ai più – Valérie Hayer, neocapogruppo dei Liberali in Ue, e che vanta la provenienza da una famiglia di agricoltori in una fase in cui i macroniani corteggiano il settore.
Dopo che, con la legge sull’immigrazione, la barcollante “maggioranza” presidenziale aveva dimostrato di aver introiettato di fatto stili e argomenti dell’estrema destra, la nomina di Gabriel Attal come premier avrebbe dovuto restaurare il macronismo degli albori: quello giovane e rampante, capace di unire attorno a un centro fuori dagli schemi. Ma Attal è pur sempre un Macron 2.0, e le sue ultime uscite, come l’intenzione di restringere il diritto di sciopero, mostrano il piglio illiberale del presidente di cui lui è il clone.
Nessuno, neppure l’Eliseo e la sua incarnazione, coltiva una particolare illusione per giugno. Anche per questo Emmanuel Macron sta facendo tutto ciò che può prima del voto: è adesso, che sta negoziando con gli altri leader, Giorgia Meloni inclusa, e con Ursula von der Leyen, le nomine per le posizioni apicali dell’Unione europea.
Un trampolino per Bardella
Intanto il Rassemblement, che già alle elezioni del 2022 aveva avuto un exploit, portando in Assemblea nazionale una novantina di deputati, si prepara a catapultarsi in massa all’Europarlamento.
Lo fa con una strategia di penetrazione nelle istituzioni – quindi notabilisation, professionalizzazione della politica, e normalizzazione – che si concretizza in mosse come la candidatura dell’ex capo di Frontex, Fabrice Leggeri, o come la stigmatizzazione di Afd da parte di Le Pen; o l’intensificazione di canali con Meloni e il suo gruppo Ue “di governo”.
Jordan Bardella, già eurodeputato e presidente del partito, delfino di Marine, va a raccontare che «sosteniamo l’Ucraina» ma «niente guerra frontale con la Russia», che «sì, volevamo uscire dalla Nato» ma «non ora che siamo in guerra». Ora che ha appena 28 anni, già lavora alla sua autobiografia. Nelle apparizioni pubbliche prova a render digeribile l’estrema destra lepeniana, che però resta in fondo quel che è, anche se si camuffa: Trump o Biden? «Trump».
Disunione a sinistra
Si potrebbe pensare che il fragile partito socialista francese abbia voluto dar filo da torcere ai lepeniani – visto il loro storico collegamento con Putin e coi soldi russi – scegliendo come capolista uno dei più accaniti fustigatori delle ingerenze straniere, Raphaël Glucksmann, che da eurodeputato si è battuto su questo pure nell’apposita commissione. In realtà, mentre è chiara la determinazione di Glucksmann, che coi modi carismatici spera di resuscitare i socialisti e li porta nei sondaggi all’11 per cento, quanto alla capacità strategica del Ps, c’è poco da esibire.
Stavolta, diversamente dalle presidenziali 2022 nelle quali Jean-Luc Mélenchon e la sua France Insoumise catalizzarono i consensi a sinistra, i socialisti possono sperare la rivalsa di campo. Ma ora il campo è sparpagliato. «Continuerò a fare campagna come se l’Unione ecologista di sinistra, la Nupes, esistesse ancora», promette la capolista melenchoniana – e capogruppo della sinistra europea – Manon Aubry. Ma la sua iniziativa è ormai solitaria: socialisti, verdi, sinistre varie, ognuno va per sé; dunque non c’è troppo da festeggiare.
© Riproduzione riservata