- Entrambi promettevano una pronta rivincita, con lo scopo dichiarato di dimostrare che, senza la limitata scelta del ballottaggio,i francesi avrebbero espresso quella insofferenza nei confronti del presidente rieletto che le inchieste demoscopiche attestano ormai da almeno due anni.
- Basandosi sui risultati del primo turno i commentatori avevano ipotizzato a caldo una futura Assemblea nazionale divisa in tre blocchi di peso quasi equivalente.
- L’eventuale ottenimento di 30-35 deputati Rn, e la contemporanea probabile assenza di esponenti di Reconquête nell’aula parlamentare, non pare destinata a sancire una solida egemonia del partito di Marine Le Pen su quest’area litigiosa.
Un terzo turno: così, quasi in contemporanea, Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon avevano definito le elezioni legislative del 12 e 19 giugno all’immediato indomani del risultato finale del lungo confronto per la conquista dell’Eliseo.
Costretti a riconoscere la pur onorevole sconfitta subita nel tentativo di sottrarre la presidenza della Repubblica a Macron, entrambi promettevano una pronta rivincita, annunciando la mobilitazione dei sostenitori da quel momento fino alla nuova chiamata alle urne, con lo scopo dichiarato di dimostrare che, di fronte ad una prospettiva non più condizionata dal “voto negativo” (o “utile”) e dalla limitata scelta del ballottaggio, la maggioranza dei francesi avrebbe espresso quella insofferenza nei confronti del presidente rieletto che le inchieste demoscopiche attestano ormai da almeno due anni.
Le mosse tattiche
Da quella serata del 24 aprile, molta acqua è passata sotto i ponti, e al tempo delle dichiarazioni di guerra ha fatto seguito la lunga e complicata fase dell’elaborazione della strategia, della definizione delle mosse tattiche e delle trattative.
Che ha messo in evidenza le divergenze di atteggiamento tra i due aspiranti al ruolo di alter ego politico del presidente e disegnato scenari solo in parte previsti dai commentatori, soprattutto da quelli che si erano subito dilettati nel produrre simulazioni di voto, una tecnica molto amata dai sondaggisti ma estremamente insidiosa.
Basandosi sui risultati del primo turno, e supponendo che nell’arco di due mesi gli elettori non avrebbero cambiato opinione, costoro avevano ipotizzato a caldo una futura Assemblea nazionale divisa in tre blocchi di peso quasi equivalente –macronisti, destra e sinistra – in cui costruire una maggioranza di governo si sarebbe rivelato un compito difficile. Un quadro su cui già oggi nessun osservatore avveduto oserebbe scommettere.
Se infatti in poco più di due settimane la sinistra è riuscita a rimettere insieme i suoi pezzi, creando una Nouvelle union populaire écologique et sociale (Nupes) in cui la componente radicale de La France insoumise fa la parte del leone, e l’eterogenea coalizione a sostegno di Macron ha gettato le basi per liste comuni dove centristi, ex postgollisti, ex socialisti ed esponenti de La République en marche, il non-partito presidenziale ora ribattezzato Renaissance, si spartiranno le candidature, a destra non solo non si è consolidata l’alleanza da più parti preconizzata, ma si sono gettate le basi per una feroce concorrenza, che potrebbe ridimensionare – e di molto – l’ambizione ostinatamente ribadita da Marine Le Pen di costituire la principale forza di opposizione parlamentare.
Che questo sarebbe stato l’esito della dinamica aperta dall’entrata in campo di Éric Zemmour era del resto prevedibile, e per questo motivo le simulazioni che pronosticavano per una coalizione di destra la conquista di almeno 160, e forse addirittura 210, dei 577 seggi dell’Assemblea nazionale avevano l’apparenza di semplici divertissements per appassionati di matematica.
Tutti sapevano che a gonfiare le vele del partito costruito intorno al candidato nazional-conservatore era l’afflusso di delusi dalla svolta moderata imposta da Marine Le Pen al suo Rassemblement national, e che quel 7,07 per cento di votanti che aveva riposto fiducia nel polemista al primo turno della presidenziale lo aveva fatto per una radicata diffidenza verso la sua più accreditata concorrente.
E nessuno poteva ignorare lo scambio di accuse, battute velenose e sgarbi che non solo i due candidati, ma anche e soprattutto i rispettivi clan, si erano scambiati lungo l’intero corso della campagna. Con frequenti passaggi di campo, defezioni e improvvisi dietrofront fra i due schieramenti. Che una situazione così deteriorata potesse ricucirsi in breve tempo aveva tutta l’aria di un’illusione.
La riorganizzazione
I fatti lo hanno rapidamente confermato. Già nella dichiarazione nella sera della sconfitta, Marine Le Pen aveva fatto piazza pulita dei precedenti propositi di ritiro dalla scena e aveva annunciato che il suo partito avrebbe presentato candidati in ognuna delle circoscrizioni del territorio nazionale, inclusi quei territori d’oltremare, come Guadalupa, Martinica, La Réunion e vari altri, dove la leader populista era giunta in testa.
Di unioni, accordi, desistenze non aveva fatto parola. E lo sprezzante commento di Zemmour, per il quale il risultato del ballottaggio aveva confermato l’impossibilità di chi porta il cognome Le Pen di vincere un’elezione, aveva messo un sigillo definitivo su qualunque ipotesi di riconciliazione. Da allora in poi, le relazioni fra i due campi hanno subìto un ulteriore peggioramento.
Malgrado gli appelli diretti di Zemmour e quelli più o meno espliciti di alcuni dei rari esponenti dell’area giornalistica e culturale simpatizzante, come il sociologo franco-canadese Mathieu Bock-Côté e Patrick Buisson, già consigliere di Nicolas Sarkozy, sia Le Pen sia il suo giovane e brillante braccio destro Jordan Bardella hanno chiuso la porta ad ogni ipotesi di convergenza.
E anche se le liste della zemmourista Reconquête saranno volontariamente assenti nelle circoscrizioni in cui si presenteranno Marine Le Pen, il sovranista gollista Dupont-Aignan e l’esponente di punta dell’ala destra dei Républicains Éric Ciotti (e il Rassemblement national, nel caso di Dupont-Aignan e della deputata uscente Emmanuelle Menard, cinque anni fa eletta con il suo sostegno, farà lo stesso), tutto porta a credere che la campagna elettorale si trasformerà per quest’area, in tutto il paese, in uno scontro fratricida senza esclusione di colpi.
Che potrebbe condurre, in molti casi, ad una divisione del bacino potenziale di consensi tale da escludere sia i candidati nazionalconservatori sia quelli nazionalpopulisti dal secondo turno, producendo un a grande quantità di ballottaggi fra gli esponenti dell’Upes e quelli di Ensemble, la confederazione a sostegno di Macron.
L’aspetto più sorprendente di questa diatriba è l’evidente piena consapevolezza di Marine Le Pen che questa sua scelta disperderà gran parte dei suffragi conquistati nella corsa alla presidenza. Il suo obiettivo non è vincere quanto più possibile, ma far perdere il rivale e vendicarsi di quanti, nel suo partito, l’hanno abbandonata ai tempi in cui i sondaggi facevano pensare che l’entrata in lizza di Zemmour fosse destinata a rovesciare i rapporti di forza tra i due aspiranti alla rappresentanza dell’opinione pubblica di sentimenti “patriottici”.
Concentrare gli sforzi
Lo dimostra il fatto che, in vista del verdetto di giugno, il Rassemblement national ha deciso di concentrare gli sforzi propagandistici su una trentina di circoscrizioni, quelle più promettenti, con l’obiettivo di giungere al numero minimo di venti eletti necessari per costituire un autonomo gruppo parlamentare – che, oltre a consentire un margine significativo di manovra in aula, fornirebbe risorse tecniche e darebbe sollievo alle sempre sofferenti casse del partito. Paradossalmente, questa strategia potrebbe portare al ballottaggio meno candidati lepenisti che in passato, pur aumentando le probabilità di successo del ristretto gruppo di “selezionati”.
Per cercare di sottrarsi alla prevedibile accusa di incoerenza con i bellicosi intendimenti di qualche settimana addietro, Marine Le Pen ha già messo le mani avanti, dichiarando in alcune interviste che, per la logica interna del sistema semipresidenziale della Quinta Repubblica voluto dal generale de Gaulle, un presidente appena eletto non può non disporre di una maggioranza parlamentare a lui fedele, e che gli elettori francesi, coscienti di questa necessità, gliela concederanno.
Niente a che spartire, dunque, con l’ambizione di Mélenchon ad ottenere un consenso maggioritario ed essere nominato primo ministro.
L’eventuale ottenimento di 30-35 deputati Rn, e la contemporanea probabile assenza di esponenti di Reconquête nell’aula parlamentare, non pare peraltro destinata a sancire una solida egemonia del partito di Marine Le Pen su quest’area litigiosa, e la decisione di Zemmour di candidarsi in prima persona a Saint-Tropez, cioè in una delle zone in cui una candidatura unitaria delle destre avrebbe avuto più possibilità di riuscita, lascia intendere che la sfida continuerà anche dopo le elezioni.
E che i nazionalisti intransigenti punteranno, per vincerla, sul radicamento organizzativo e su campagne attivistiche contro l’immigrazione e l’islamizzazione, mentre i loro mancati alleati proseguiranno sulla linea della “sdemonizzazione” della propria immagine, privilegiando tv e social media. Con la concreta possibilità che fra i due litiganti il terzo – ovvero i moderati Républicains, ben più radicati sul territorio e in grado di disporre dell’appoggio di migliaia di consiglieri comunali e centinaia di sindaci e consiglieri regionali – ancora una volta sia l’unico a godere, rinascendo dalle ceneri in cui sembrava essersi polverizzato.
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