Un verdetto ha appena confermato la validità delle elezioni di ottobre, ma il Pis sabota in ogni modo il governo. In questo contesto ostico, il nuovo premier e le ministre femministe portano avanti cambiamenti epocali
Prima c’erano le zone interdette ai gay, le lgbt-free zones; e l’Unione europea si scandalizzava. Adesso in Polonia sbarcheranno le unioni civili. Prima la chiesa dettava legge. Ora è in corso un processo di secolarizzazione che sarà sicuramente lungo e complesso, ma che promette di trasformare tutto il paese; il primo segno tangibile sarà il taglio del fondo ecclesiastico. Prima le femministe andavano in piazza per rivendicare il diritto all’aborto; oggi quelle stesse femministe sono al governo.
E che dire delle scuole? Siamo passati da un ministro destrorso e reazionario, che propugnava l’uso pedagogico del ceffone e che istruiva corsi di arma da fuoco, a una ministra femminista che sta restituendo alla società civile e ai diritti lgbt il diritto di ingresso in classe.
Non si pensi che l’attuale premier polacco sia un rivoluzionario: no, Donald Tusk non ha il profilo del radicale, né è un uomo di sinistra. Ma in appena un mese di governo, con un cuore come simbolo e tenendo unita una coalizione a dir poco composita, assieme ai suoi ministri e soprattutto alle sue ministre, sta effettivamente cambiando volto alla Polonia e quindi all’Europa.
Si tratta di un compito particolarmente complesso, visto che gli ultraconservatori del Pis – alleati di Giorgia Meloni in Europa – stanno facendo di tutto per destabilizzare e tenere sotto scacco gli avversari che hanno prevalso alle elezioni di metà ottobre.
L’immagine picaresca dei due ex membri di governo del Pis, Mariusz Kamiński e Maciej Wąsik, che cercano riparo nel palazzo presidenziale di Andrzej Duda per poi finire acciuffati dalla polizia rende bene lo scontro frontale tra Duda e Tusk, tra ciò che era e non vuol rinunciare a restare, e ciò che è e vuol provare a diventare.
Ma anche il terremoto in corso sui diritti non è un esempio meno efficace: nell’estate 2020 Duda era andato a prendersi i voti per presidente della Repubblica con una campagna che più omofoba non si può; oggi Tusk apre la Polonia alle unioni omosessuali.
Governare è una lotta
Prima ancora di addentrarsi nei cambiamenti in corso, va precisato che la stessa possibilità di governare rappresenta per Tusk una lotta. Il 15 ottobre, con una partecipazione record, i polacchi hanno consegnato alla coalizione da lui guidata una maggioranza inequivocabile. La spinta delle nuove generazioni, gli effetti della mobilitazione femminista degli ultimi anni, l’urgenza di riportare il paese nell’alveo europeista, hanno catalizzato il successo elettorale e mobilitato le energie necessarie perché il nuovo premier potesse operare con zelo trasformazioni profonde.
Gli ultraconservatori lo hanno tenuto in attesa fino a metà dicembre, ma già prima di insediarsi Tusk è intervenuto sbloccando i fondi europei; poi il suo esecutivo ha subito sganciato la tv pubblica dalla gestione precedente, che ne faceva un organo di propaganda, e ha operato scelte cruciali per ripristinare lo stato di diritto e la sintonia con l’Ue. Nel frattempo sono state avviate inchieste per fare giustizia degli squilibri del regime precedente.
L’arresto di Kamiński e Wąsik – che Duda si ostina a graziare e proteggere, mentre con Tusk sono stati spogliati del mandato parlamentare – è uno degli effetti di questo terremoto. Ed è anche l’apice visibile di uno scontro fra due blocchi.
Tusk ha maggioranza, governo e volontà politica. Ma il Pis – che in anni di governo e di derive autocratiche ha modellato a sua immagine i media e la magistratura, e che ha tuttora dalla sua parte la presidenza della Repubblica – punta in ogni modo a sabotare il nuovo corso.
Era molto temuta la sentenza di questo giovedì della corte suprema polacca (il sistema giudiziario del paese porta ancora traccia dell’ingerenza del Pis); il verdetto ha ribadito la validità delle elezioni di ottobre. Dopo Natale, ci aveva provato Duda, a tenere in ostaggio la legge di Bilancio; ma anche in quel caso il governo Tusk aveva svicolato l’ostacolo.
Se la finanziaria non viene approvata in tempo, il presidente della Repubblica può sciogliere le camere. In generale, il timore che – facendo leva su Duda e sui giudici – il Pis provi a far saltare il governo è un’inquietudine quotidiana per Tusk. Anche senza il ritorno alle urne, si tratta comunque di tentativi costanti di destabilizzazione.
Separare stato e chiesa
In questo clima di fibrillazione permanente, il tentativo di Tusk di introdurre un processo di laicizzazione del paese – anche se per gradi – appare come un capovolgimento copernicano. Nell’èra Pis, la chiesa dettava legge; basti citare le spinte di Stanislaw Gadecki, presidente della Conferenza episcopale, perché il Pis non tradisse «la promessa elettorale di proteggere la vita dal concepimento», alle quali ha fatto seguito nel 2020 una sentenza della Corte costituzionale che ha ristretto ancor di più il diritto all’aborto.
Przemysław Czarnek, l’ultimo ministro dell’Istruzione del Pis, aveva un approccio tutt’altro che laico: per lui lo studio della religione cattolica doveva essere obbligatorio (senza le alternative di etica o astensione) e l’educazione andava riequilibrata con più “martirologia” (la venerazione per martiri, santi e “soldati maledetti”). «Vuole sostituire il sapere con la dottrina», denunciava a Domani l’eurodeputato di sinistra Robert Biedron nel 2021.
Oggi la sinistra sostiene il governo Tusk assieme a formazioni anche molto cattoliche: i centristi di Terza via, il “terzo polo” polacco, hanno tra i leader Szymon Hołownia – ora presidente della Camera – che è dichiaratamente cattolico e che nella sua vita precedente da giornalista lavorava per testate cattoliche. Ma che sostiene la separazione tra stato e chiesa.
Tutta la coalizione ha trovato una sintesi, per esempio, sull’idea di eliminare il cosiddetto “fondo ecclesiastico”, un canale per drenare fondi pubblici alla chiesa. Il governo Tusk preferisce creare una versione locale del nostro otto per mille (e non a caso i giornali polacchi lo chiamano «il modello italiano») così che ciascun contribuente possa liberamente esprimere la sua preferenza. «C’è una transizione da organizzare, ma il mio partito è sempre stato d’accordo, sull’abolizione del fondo per la chiesa», ha ribadito Hołownia.
Anche per quel che riguarda le lezioni di religione, Tusk porta un vento di novità: per il premier, a scuola non bisognerebbe fare catechismo, ma studi religiosi, insegnati da antropologi ed etnografi. La coalizione sostiene anche l’idea che le lezioni di religione siano collocate a inizio o a fine giornata, il che implica libertà di saltarle.
Diritti lgbt e femminismo
E pensare che fino a un mese fa l’istruzione era quella organizzata da Czarnek, il ministro del Pis che definiva i gay «deviati» e che aveva apparecchiato un sistema educativo reazionario e omofobo, ispirandosi alla legge anti lgbt orbaniana. Oggi il governo Tusk vuole dare un segno immediato di cambiamento inaugurando le unioni civili. «Le persone lgbt hanno aspettato troppo a lungo l’uguaglianza! Stiamo avviando i lavori e le consultazioni sulla legge per le unioni civili!», ha promesso Katarzyna Kotula, la ministra per l’Uguaglianza.
Kotula è femminista, ha partecipato allo “sciopero delle donne” per il diritto all’aborto e viene dalla sinistra, così come Agnieszka Dziemianowicz-Bąk, ministra per Famiglia, Lavoro e Politiche sociali. Quest’ultima era stata indicata da Foreign Policy come la “sfidante” del sistema da tener d’occhio per la sua lotta femminista; era il 2016, c’erano anche allora proteste per l’aborto, e nella lista c’era anche quella che oggi è diventata la ministra dell’Istruzione, Barbara Nowacka. Rispetto a Czarnek, è una nemesi.
Sicuramente queste ministre si batteranno per restituire alle donne polacche il diritto all’aborto; sarà plausibile che venga spazzata via la sentenza del 2020 che ha portato le nuove restrizioni. Per legalizzare invece l’aborto fino alle 12 settimane, bisognerà convincere Terza via, che insiste per un referendum. Ma del resto per fare una rivoluzione – se si vuole spostare una società e un paese interi – un mese solo può non bastare.
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