- Ho 24 anni. Un’età estrema come le emozioni che provo, come l’angoscia e l’impresa di rimanere lucidi di fronte a una minaccia totale
- L’incipiente epoca della disperazione sarà il momento in cui nasceranno nuovi soggetti politici e sarà un momento di scontro
- Questo articolo si trova sull’ultimo numero di POLITICA – il mensile a cura di Marco Damilano. Per leggerlo abbonati o compra una copia in edicola
Chiamiamolo con il suo nome: annientamento. La paura dell’annientamento è ritornata molte volte negli ultimi secoli. Su questo ciclico ripresentarsi dello spauracchio apocalittico si fondano diverse ciniche obiezioni dei negazionisti della crisi climatica. Quello che sfugge ai negazionisti è che oggi c’è un consenso scientifico schiacciante sull’apocalisse che incombe. Va presa sul serio, e per prenderla sul serio bisogna, fra l’altro, rimanere lucidi.
Senza futuro
Ho 24 anni. A oggi l’Istat stima per me un’aspettativa di vita di circa, ancora, sessant’anni. Sessant’anni che si spianano di fronte a me come una prateria brulicante di imboscate della storia, ignote, ipermassicce, ben oltre il limite del 2050 che tanti scienziati pongono come punto di non ritorno prima di assistere al declino definitivo dell’essere umano come specie. È un fardello estremo da sopportare. Estremo come le emozioni che provo, come la disciplina che mi impongo, come l’angoscia che mi stritola ogni volta che constato un nuovo dettaglio del lungo e coerente percorso di disfacimento intrapreso dalla comunità globale di Homo sapiens. Estremo come l’impresa di rimanere lucidi di fronte a una minaccia, questa sì, davvero totale.
Cosa significa vivere sapendo di non avere un futuro? Cosa significa vivere ogni anno nel terrore di essere sempre più vicini alla desertificazione e all’invivibilità del pianeta, vedendola oggi cominciare? Cosa significa essere più poveri dei propri genitori, crescere in una cultura del lavoro salariato e tutelato come privilegio non di pochi ma addirittura di pochissimi (ho scoperto a un’età vergognosamente tarda che lavorare senza neanche un giorno di riposo alla settimana, a getto continuo, senza alcun tipo di risarcimento, è illegale; io pensavo fosse normale, perché nella mia zona, ai giovani senza esperienza, offrono un florilegio di contratti di questo tipo, spesso per più di 10 ore al giorno), e nel frattempo non potersi laureare perché a causa di disuguaglianze e redditi sempre più bassi le tasse universitarie superano le proprie possibilità di spesa, mentre le proprie città vengono devastate da eventi climatici estremi? Cosa significa non potersi permettere il materiale scolastico, e quando si può studiare, trascorrere il proprio tempo sui libri anziché in relazione con altri esseri umani, incastrati in un modello insostenibile di istruzione e società, negli ultimi anni di aria respirabile che ci rimangono, nella consapevolezza che potrebbe essere tutto inutile? Cosa significa non riuscire ad andare a votare perché si soffre troppo a entrare nel seggio (storia vera)? Cosa significa soffrire un collasso fisico e psicologico ogni volta che cambia un governo, constatando un nuovo progetto di neghittosità climatica, dover richiedere l’intervento urgente di un medico e (storia vera anche questa) spiegargli che la causa scatenante del breakdown psicofisico è un nuovo governo e una nuova compagine di politici disinteressati all’emergenza climatica?
Dovere ineludibile
Tutto questo, io vorrei poterlo comunicare a chi è più grande di me e per motivi anagrafici non sarà costretto, come (presumibilmente) me, a vivere lo svolgersi della catastrofe nel pieno della propria vita. Faccio fatica. Forse la responsabilità è anche mia, chi lavora con le parole ha il dovere di lavorare, fra l’altro, per rendere comprensibile ciò che è arduo da descrivere. L’angoscia può far perdere il controllo, può portare a reazioni inconsulte. La disciplina di chi lavora con le parole oggi non è mai stata così straziante, non per questo meno irrinunciabile, anzi chiama con forza ancora più irresistibile. Il dovere della parola, scavata con dolore nella propria pelle, è ineludibile. Anche in questo dovere ineludibile, sentito da tutti, è incistata la sofferenza di chi non ha voce. Sofferenza estrema.
Non voglio fare un j’accuse, non perché non ce ne sia bisogno, ma perché ce ne sono già tanti, ottimi, facilmente reperibili. Voglio aiutare a rendere visibile l’invisibile. Voglio esortare. La politica non deve cercare nei social il voto dei giovani. La politica deve cercare... i giovani, che sia attraverso i social o nella realtà della loro assenza di speranza. L’assenza di speranza è cosa assai diversa dalla disperazione. L’assenza di speranza è funerea, la disperazione è combustibile per un’ampia gamma di azioni. Prima o poi l’assenza di speranza si tramuterà in disperazione. Anche la disperazione è gravida di angoscia, di reazioni inconsulte, ma la reazione si può cristallizzare razionalmente, può trasformarsi nel nucleo di un’aggressività proattiva, calcolata, coalizionaria. La pandemia è stata una prima prova di convivenza fra sfumature di lucidità di fronte a un pericolo sovrumano nel senso proprio del termine. L’incipiente epoca della disperazione sarà il momento in cui nasceranno nuovi soggetti politici e sarà un momento di scontro. Nessuno vuole un’apocalisse. Specialmente chi ne sarà travolto nel pieno delle proprie forze. Pratichiamo l’attenzione. E cerchiamo di non concedere a nessuno, vecchio o giovane, il primato dell’azione sulla relazione. Cerchiamo, insomma, di fare politica. Tutti.
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