Domani l’assemblea del Pd farà il punto sui successi dell’anno che finisce. La segretaria ha fatto crescere il partito, ma di alleanze si riparla nel 2027
«È un mero adempimento da statuto. Un’assemblea senza titolo». Non c’è un dirigente del Pd che sappia spiegare bene qual è l’ordine del giorno dell’assemblea nazionale di domani, convocata alle 10 all’auditorium Antonianum di Roma, a due passi dalla stazione Termini, posto comodo per la delegazione dem che nel pomeriggio parteciperà alla manifestazione contro il ddl Sicurezza (che parte alle due del pomeriggio da piazzale del Verano).
Ma, al netto dello statuto, è facile previsione che buona parte della relazione di Elly Schlein sarà il bilancio del “suo” 2024. Le europee sono andate bene, il Pd è salito oltre il 24 per cento; le regionali anche, almeno secondo l’analisi della segretaria, che è: «Partivamo dal centrodestra che guidava sei regioni di quelle al voto e noi una, ora siamo 4-3».
In realtà, per questo calcolo, la differenza l’ha fatta la vittoria in Umbria. Ma resta che la polarizzazione Meloni-Schlein ormai è un fatto; la marcia di avvicinamento a FdI sembra ingranata. «Schlein ha scavallato», spiega un dirigente di lungo corso vicino alla segretaria.
«Scavallato» significa che si è guadagnata sul campo i galloni. Dentro il partito, dove anche chi ha obiezioni di metodo sulla sua guida, o di merito su qualche dossier, ormai circoscrive o ingoia il rospo: nessuno può negare che il consenso è dovuto alla linea spostata a sinistra, e al ritorno del Pd fuori dalle fabbriche e nelle piazze, insomma a quel «movimentismo» che fino a ieri le veniva attribuito come un difetto.
La linea Bruxelles-Napoli
I problemi interni ci sono, anche se non fanno notizia: a Bruxelles sul voto sull’Ucraina il Pd si è diviso in quattro posizioni diverse e, nonostante gli sforzi di Nicola Zingaretti, talvolta la delegazione dem sembra un grande gruppo misto. In Campania, dove il Pd è commissariato, lo scontro con Vincenzo De Luca consiglia al Nazareno un accordo con l’area riformista sul nuovo segretario regionale: cosa che però ha fatto imbufalire l’area vicina alla segretaria. In Emilia-Romagna c’è stato del malumore nella stessa maggioranza del partito sui nomi “schleiniani” della giunta.
In più, ieri, l’ottimo presidente Michele de Pascale ha dato voce all’indicibile scetticismo del Pd del Nord sul referendum contro l’autonomia differenziata, ormai smontata dalla Consulta: ma è una posizione opposta a quella della Cgil di Maurizio Landini, al cui fianco Schlein ha schierato il suo Pd.
La sinistra interna – l’area di Orlando, Provenzano e Sarracino – ha chiesto una conferenza organizzativa proprio per ragionare su un partito «all’altezza della promessa». La segretaria ha detto sì, ma la cosa è passata in cavalleria. L’anno che sta per iniziare, senza grandi appuntamenti elettorali, servirà a Schlein per «consolidare il Pd». Però il partito è una grande macchina elettorale e c’è chi avverte che, «quando il Pd non ha niente da fare, si fa male».
Ma lo «scavallamento» più forte è sul piano della futura alleanza. A Schlein, da segretaria del partito di gran lunga più votato del suo campo, spetta il compito di guidare la carovana verso una coalizione. Ma la carovana traballa. La sua strategia, ammesso che si possa definire così, è chiara più per il non detto che per il detto.
Il detto è che il metodo resterà quello dell’inizio: del «testardamente unitario» e delle zero polemiche con il M5s. Il non detto è che nel frattempo è successo che Conte ha vinto la partita interna contro Grillo e da ora in avanti marcherà la sua autonomia. Forse anche da Atreju, la festa di FdI di cui proprio domani è ospite. La scelta di campo «progressista» l’ha fatta – con qualche stupefacente volo linguistico-teorico, come quando nega di essere di sinistra – ma dinanzi al suo elettorato in caduta libera non può apparire un gregario del Pd. Quindi alza i decibel.
A qualche saggio democratico che avanzava preoccupazioni, ha assicurato che non passerà mai il limite del rispetto. Ma la rivendicazione identitaria sarà il segno del 2025 e forse anche del 2026, e – al netto delle alleanze locali, solo dove Conte lo riterrà non controproducente per il M5s – la possibilità di accordo programmatico nel 2027 c’è, ma date le distanze non sarà una passeggiata di salute.
Schlein lo sa, quindi bandisce, dove può, inutili richiami all’ordine verso l’ex premier. A cui, non si può dire apertamente, va accordato bon gré mal gré un elemento di libertà. Per evitare il peggio. Conte non vorrebbe seguire la linea del direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, quella del «contratto» con l’alleato miglior offerente, ma deve marcare un posizionamento: per recuperare (anche alla coalizione) un elettorato diverso da quello del Pd.
«Conte non è genere da convocare a un tavolo come un alleato minore», è il messaggio inviato tramite ambasciatori. Anzi più facesse il “cespuglio”, più sarebbe possibile una rottura in zona Cesarini, cioè alla vigilia delle politiche.
Il «centro» e chi lo teme
All’alleanza manca ancora un aggregato del centro. Qui Schlein ormai pare convinta: l’unico schema razionale è quello indicato tempo addietro da Goffredo Bettini, con cui non a caso ha riallacciato un rapporto di confronto più caldo. All’alleanza servono tre «gambe»: «Il Pd, il M5s e un polo liberale, libertario, moderato ma modernizzatore» (queste le parole di Bettini).
Per quel terzo polo (con le minuscole) la constatazione condivisa è che ormai va superato il binomio conflittuale Calenda-Renzi, e va lasciato crescere un processo più ampio e espansivo, con altri protagonisti. Ma la girandola dei nomi è controproducente, e rischia di azzoppare i migliori, come per esempio il direttore dell’Agenzia delle entrate («in uscita», viene assicurato) Ernesto Maria Ruffini: che Schlein però percepisce, giustamente, come un aspirante contendente alla leadership della coalizione, come un novello Romano Prodi (che non a caso è uno dei suoi sponsor).
Serve un processo reale, che parta «dal basso», meglio se valorizzando le liste civiche che, lo si vede nel voto locale, raccolgono un elettorato che vive la politica come un servizio al bene comune più che un’adesione a un partito. L’aggregazione del centro non è un affare diretto del Pd, ma non è un mistero che i centristi del Pd lo auspicano e insieme lo temono. Insomma, il 2024 è andato bene, per la segretaria, ma da ora inizia la vera lunga marcia per il 2027.
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