Inutile smarrirsi nelle tecnicalità e illudersi di correggere l’incorreggibile. Il riformismo – parola spesso equivocata e comunque da maneggiare con cautela in materia costituzionale, per sua natura non congeniale a estemporanei cambiamenti – non può spingersi sino al collaborazionismo
Un cartello di associazioni ascrivibili a entrambi gli schieramenti che si propone di mettere a punto una mediazione suscettibile di evitare il muro contro muro sul premierato – la «madre di tutte le riforme», secondo la formula coniata dalla Meloni – ha avanzato due proposte emendative al testo del governo.
L’intenzione dichiarata può essere apprezzabile: quella di dare mostra della consapevolezza secondo la quale le regole, tanto più quelle fissate nella legge fondamentale ovvero la Costituzione, si scrivono insieme e non a colpi di maggioranza politica ristretta e contingente. In omaggio all’idea della Repubblica cara ai costituenti intesa come “casa comune”, dentro la quale sarebbe bene che nessuno si sentisse estraneo, a motivo di principi e di regole imposte da altri.
Il primo emendamento stabilisce che è eletto premier il candidato collegato al gruppo politico che ottiene la maggioranza assoluta dei seggi nelle due camere salvo ricorso al ballottaggio tra i primi due classificati se nessuno superi il 50 per cento; il secondo si propone di elevare il quorum per l’elezione del presidente della Repubblica e di allargare la platea dei suoi grandi elettori (comunque di secondo grado, cioè non i cittadini). Una mediazione che doppiamente non convince: sia perché, nella sostanza, sempre di elezione diretta del premier si tratta; sia perché è facile prevedere che non soddisferà il governo.
Il cui obiettivo, palesemente non negoziabile e fortissimamente voluto in prima persona da Meloni, è il rito (plebiscito) dell’elezione popolare diretta del premier sulla quale essa intende giocarsi l’intera posta. Qui sta la carica supremamente politica della questione. Non possiamo dare credito alla versione secondo la quale si tratterebbe di correzione minimalista (solo quattro articoli, si dice).
Né ha fondamento la teoria che il premierato assoluto prospettato sarebbe una soluzione più temperata del presidenzialismo o del semipresidenzialismo in senso stretto (modulo Usa o francese) che, entrambi, contemplano correttivi e contrappesi alla “capocrazia”. Neppure possiamo dare credito alla tesi truffaldina secondo la quale parlamento e Quirinale non vedrebbero intaccate le loro prerogative.
È di tutta evidenza il contrario: camere a rimorchio del premier, la cui sorte è per intero nelle sue mani con il vincolo a un indirizzo politico congelato per cinque anni; presidente della Repubblica pressoché privato dei suoi due principali poteri, la scelta del presidente del Consiglio incaricato di formare il governo e il potere di scioglimento del parlamento.
Oltre al compito di sovraintendere effettivamente alla gestione delle crisi di governo. Depotenziando altresì la sua moral suasion. Quella che, pur con equilibrio e misura, esercita l’attuale inquilino del Quirinale. Per limitarci ai casi più recenti: le manganellate agli studenti di Pisa, la scuola di Pioltello, la libertà di stampa, l’improprio uso politico delle commissioni parlamentari d’inchiesta. Con che ardire potrebbe operare tali richiami domani a fronte di un premier che vantasse una ben più larga e forte investitura?
Per fare breccia nell’opposizione, si enfatizzano episodi di trent’anni fa che attesterebbero aperture a sinistra su modelli parapresidenzialisti. Episodi, appunto, ma mai concepiti come elezione diretta del premier senza contrappesi. Ed episodi lontani nel tempo e per contesto.
Chi si ostinasse a non intendere quale sia il segno dell’operazione e il tenore dell’investimento personale e politico su di essa da parte di Meloni dovrebbe gettare un occhio sullo show allestito a Montecitorio affollato di nani e ballerine che, candidamente ignare, si chiedevano che ci stessero lì a fare.
Correggere l’incorreggibile
Inutile smarrirsi nelle tecnicalità e illudersi di correggere l’incorreggibile. Il riformismo – parola spesso equivocata e comunque da maneggiare con cautela in materia costituzionale, per sua natura non congeniale a estemporanei cambiamenti – non può spingersi sino al collaborazionismo.
La posta in gioco è la Costituzione, ma il confronto-scontro è genuinamente politico e a esso non ci si può sottrarre. Anche perché i tre dossier sono notoriamente figli di un mediocre baratto politico tutto interno ai tre partiti di maggioranza (FdI, Lega, FI, con le rispettive bandiere: premierato, autonomia differenziata, separazione carriere dei magistrati).
Pur inscrivendosi in un quadro per nulla coerente, essi tuttavia vanno giudicati nel loro insieme e nel loro comune segno oggettivo: quello di un colpo inferto alla nostra democrazia costituzionale e parlamentare, oltre che all’unità e alla coesione del paese.
All’orizzonte dei promotori, da loro espressamente voluto, sta il referendum confermativo concepito come un plebiscito. È bene saperlo e traguardare sin d’ora a esso, dando mostra di avere fiducia negli argomenti atti a contrastarlo. Senza arretrare, attestandosi su marginali correzioni. Non timidi e subalterni a fronte della determinazione da parte di chi è deciso a portare a casa niente di meno che una nuova Repubblica.
Sia nella forma, sia nella sostanza, sia nella sua valenza simbolica, e cioè trasmettendo l’idea dell’archiviazione della vecchia Costituzione e del patrimonio etico-politico dei padri costituenti di cui essa è intessuta, per celebrare solennemente l’alba di una nuova Repubblica intestata agli eredi di chi – è un fatto, non un giudizio malevolo – nel suo atto fondativo non si riconobbe (FdI) o di chi ad esso è storicamente e culturalmente estraneo (FI e Lega). Senza più padri, con una sola madre.
© Riproduzione riservata