Elezione popolare diretta. Non del popolo – che è una costruzione politica definita dallo spazio e dal tempo – ma dei cittadini/elettori, i quali sono chiamati a selezionare il capo. Non si sa bene però di cosa, se dello stato oppure del governo.
Il governo Meloni sembra aver trovato un’intesa sull’«elezione diretta del presidente del Consiglio». Ma la ministra delle Riforme istituzionali Elisabetta Casellati, che sul tema si è espressa con poche dichiarazioni, ha mostrato chiaramente che per l’esecutivo la questione sia di poco conto, e che l’importante risieda nel conferimento del potere di scelta al “popolo”.
Ma procedere all’elezione popolare diretta del presidente della Repubblica, ovvero del primo ministro, apre la strada a scenari costituzionali, istituzionali e politici assai diversi, talvolta opposti. L’ingegneria costituzionale comparata è chiara sul tema, ma nel dibattito non se ne fa menzione.
L’elezione diretta del presidente della Repubblica, ad esempio, è compatibile sia con una forma di governo presidenziale sia con una semi-presidenziale. Due fattispecie che hanno meccanismi di funzionamento istituzionale, di rapporto tra legislativo ed esecutivo, tra presidente e capo del governo, che non sono assimilabili, tanto meno sovrapponibili o fungibili.
Francia vs Stati Uniti
Nel contesto presidenziale (utilizziamo il caso Usa quale esemplificativo della categoria), il presidente è esso stesso l’esecutivo, nomina i suoi ministri (che pure devono ottenere il consenso del Senato), e non ha poteri di scioglimento nei confronti del parlamento.
Inoltre, il capo dello Stato non ha poteri di iniziativa legislativa (a esclusione dei decreti) e, soprattutto, in caso di maggioranze diverse con il legislativo (governo diviso), non può proporre e tantomeno imporre la propria agenda di politiche pubbliche.
L’elezione diretta vale però anche nel sistema semi-presidenziale (pensiamo alla Francia della Quinta Repubblica), ma in quel contesto il presidente assume poteri e ruoli diversi dall’omologo americano. Può sciogliere il parlamento (sebbene non più di una volta l’anno), nomina il primo ministro e in presenza di un parlamento politicamente ostile deve accettare – bon gré mal gré – di coabitare con un governo che è pienamente legittimato a guidare il paese proprio grazie all’investitura proveniente dal legislativo.
Dunque, anche in questi contesti di «elezione diretta», per definire una forma di governo coerente e integrata, è necessario introdurre bilanciamenti, circoscrivere poteri, indicare ambiti e istituzioni che compongono il sistema nel suo complesso e anche la forma di stato (federale per gli Usa, centralizzata per la Francia).
In questo senso è fondamentale delineare le caratteristiche del legislativo. Innanzitutto il suo formato (bicamerale o monocamerale), gli ambiti di rappresentanza (nazionale o territoriale), le funzioni delle commissioni e i poteri. E soprattutto come eleggere quest’organo: semplificando, con un sistema elettorale maggioritario (ancora gli Usa e la Francia) oppure proporzionale (la camera bassa del Brasile), con o senza possibilità per l’elettore di esprimere un voto di preferenza.
Infine, se il presidente della Repubblica è eletto indirettamente e la legittimazione del governo passa dal rapporto fiduciario con il parlamento, è importante stabilire le regole di ingaggio quanto a investitura e dimissioni.
La sfiducia costruttiva
La bozza di proposta della ministra Casellati esclude la sfiducia costruttiva, istituto presente in Germania e in Spagna, e pone direttamente il tema della legittimazione del governo sul versante popolare, tanto da prevedere l’elezione diretta del premier quale principale novità delle riforma avanzata.
Tale congegno propone che gli elettori eleggano direttamente il capo (e la capa?) dell’esecutivo e che, qualora il venir meno del rapporto fiduciario con il parlamento o altri impedimenti ne provocassero la caduta, si torni alle urne. Ne deriva che il ruolo del presidente della Repubblica – da imparziale, ma non neutrale – diviene una funzione notarile, circostanza mai verificatasi nel contesto italiano dal 1946-1948.
Il caso di Israele
L’unico esempio di elezione diretta del premier analoga alla proposta Casellati si è avuto in Israele tra il 1996 e il 2001 senza che la riforma, introdotta nel 1992 producesse gli effetti auspicati di rafforzamento dell’esecutivo, di riduzione del numero dei partiti in parlamento, di contenimento della frammentazione e di maggiore stabilità e governabilità.
La legge elettorale
Infine, viene ignorato il sistema elettorale, o peggio la discussione sul tema viene posticipata, a conferma del carattere simbolico della proposta di riforma. Eleggere il presidente direttamente non dice molto, o meglio non abbastanza.
È possibile procedere con elezione “come se diretta”, laddove c’è un collegio di grandi elettori come negli Stati Uniti, con un turno unico e dunque a maggioranza semplice (Messico) ovvero con doppio turno (Francia) e, non meno importante, prevedere una soglia oltre la quale il ballottaggio è escluso (caso recente dell’Argentina).
Anche per il parlamento è importante, cruciale, conoscere quali siano le forme di elezione, anche in considerazione della riduzione del numero dei parlamentari che incide potentemente sulla dimensione delle circoscrizioni, sui costi, sul rapporto eletto-elettori.
Insomma, questa proposta è irricevibile dal punto di vista scientifico prima che politico, è un ircocervo. Al di là dei singoli aspetti, non è coerente: agisce su una sola leva senza considerare l’assetto sistemico e le sue conseguenze che si possono prevedere studiando casi storici. Le riforme andrebbero discusse nelle sedi istituzionali proprie, coinvolgendo i cittadini, gli esperti (non solo quelli embedded), con solide e valide comparazioni e avendo chiare le finalità complessive per un disegno coerente.
Il premierato del governo è l’anticamera di un populismo vittimista© Riproduzione riservata