La violenza economica, tra le più subdole e meno note forme di violenza di genere, è estremamente esemplificativa del perché quest’ultima sia l’esito di asimmetrie sociali esercitate attraverso dinamiche di controllo coercitivo, che possono iniziare dalla mancata disposizione del denaro: una dinamica perpetrata da anni di costrutti patriarcali sulla gestione maschile delle finanze
Sara ha 42 anni e lavora in banca. Quando le chiediamo che tipo di rapporto ci sia tra le donne che attraversano la sua filiale e la libera gestione del denaro, risponde: «Si può pensare che tutte le donne gestiscano a pieno il loro denaro, ma non è così: allo sportello vedo anche donne senza conto corrente o accompagnate dai mariti per le operazioni, donne che mi chiedono in modo timoroso come funzioni l’apertura di un conto e anche donne che, quando vengono da noi, raccolgono tutti gli scontrini delle spese nel portafoglio perché devono consegnarli al marito».
Il tema della libera gestione delle finanze da parte delle donne, dunque, non è scontato e può sfociare in controllo, sfruttamento e sabotaggio economico, come dimostrano i dati: in Italia, secondo una ricerca Ipsos, almeno una donna su due è vittima di violenza economica.
Il 49 per cento delle donne intervistate ha dichiarato di averne subito nella vita almeno un episodio, il 67 per cento dei casi riguarda donne separate o divorziate e una donna su dieci ha ammesso che il proprio partner le ha negato la possibilità di lavorare, peggiorando la situazione economica.
La violenza economica
Carlotta Romagnoli è psicologa, psicoterapeuta e operatrice del centro antiviolenza “Sonia”, della rete dei Centri antiviolenza Iside di Venezia. A Domani racconta come il tema della violenza economica sia centrale nel loro lavoro: «È una delle tante forme di violenza che le donne ci raccontano. Nel 2019 abbiamo collaborato a un progetto finanziato dalle Pari opportunità che ha voluto indagare, con 245 donne che si sono rivolte ai centri, il fenomeno e la sua consapevolezza».
Più del 70 per cento delle donne «aveva dichiarato di aver subito violenza economica e, nel restante 30 per cento dei casi, le donne avevano scoperto attraverso alcune domande di controllo che, seppur non immediatamente conscie della violenza, l’avevano subita in forme di controllo del denaro o di indebitamento per oggetti che sarebbero rimasti all’uomo».
Ci sono due tipi di violenza economica, quella di tipo privativo e quella di tipo coercitivo: la prima ha a che vedere con il non erogare denaro per spesa o farmaci, basato prettamente sul controllo: non ti permetto di andare a fare la spesa da sola, non ti erogo il mantenimento dei figli in caso di divorzio o ti obbligo a vedermi per fornirtelo. La violenza coercitiva, invece, è legata all’obbligo che viene imposto alle donne su cose specifiche: firmare assegni in bianco, intestare alla donna tutti i finanziamenti, sottoscrivere contratti di cui non si ha consapevolezza.
Romagnoli spiega a Domani che spesso le donne non riconoscono nell’immediato questo tipo di violenza, perché «la gestione del denaro è permeata di costrutti patriarcali, è una cultura molto difficile da sradicare. Spesso queste donne non si concedono nemmeno di sapere quale sia lo stato patrimoniale del nucleo familiare, sovente abbandonano il lavoro dopo che diventano madri e il partner non collabora nella conciliazione del tempo di lavoro e di vita delle donne». Tutto questo crea una dipendenza economica.
Le storie dai centri antiviolenza
La violenza economica non viaggia mai da sola, come tutte le forme di violenza maschile sulle donne «si struttura correlata alla violenza psicologica», dichiara Romagnoli, ed «è un atto di costrizione che nasce da un substrato di violenza psicologica che poi diventare anche violenza economica».
Nei centri arrivano donne che, dopo la separazione, «si accorgono che il partner aveva svuotato il conto condiviso. Tante storie riguardano anche il mantenimento dei figli: ex mariti o partner che negano l’assegno di mantenimento o le ricattano, dicendo loro che per averlo devono per forza vedersi. Tutte queste cose impediscono alle donne di ricostruirsi una vita autonoma e indipendente».
Le donne spesso riportano che l’uomo maltrattante impediva loro anche la minima gestione del denaro, a partire dal non avere un conto corrente: «Arrivano da noi dicendo: “Io non ho nulla”. Casa e automobile sono intestate al marito, non hanno contocorrente o se lo hanno è cointestato, ma senza l’autorizzazione al prelievo di contanti, come anche l’uso del bancomat».
Le donne hanno spesso timore delle reazioni di controllo e potere del partner e, nel tempo, «questo si incardina nella relazione: il partner può decidere a che ora la donna debba rincasare, cosa sia autorizzata o meno a comprare»; dunque a controllare ogni aspetto della sua vita e del suo tempo. Romagnoli spiega che ciò ha esiti pesanti anche sul lavoro stesso delle donne: «Il partner maltrattante si presentava sul posto di lavoro per controllarle o le chiamava insistentemente, arrivando a farle licenziare».
I centri antiviolenza, però, lavorano anche nei contesti in cui la relazione non si interrompe: «Ho lavorato con una signora anziana che aveva una pensione che girava interamente nel conto condiviso con il marito. Ad un certo punto lei ha detto basta. L’abbiamo accompagnata ad aprire un conto corrente e per la prima volta ha usato un bancomat. Da tempo frequentava il nostro centro, e dopo un percorso si è sentita più forte ed è riuscita ad agire in questo senso, un primo passo per costruire qualcosa di differente».
Reddito di libertà
Senza reddito, dunque, non può esserci libertà e fuoriuscita dalla violenza. Nonostante ciò, come già denunciato da Domani, i fondi per il reddito di libertà sono insufficienti e tardano ad arrivare. La conferma nelle difficoltà inerenti all’erogazione del reddito di libertà arriva dal lavoro dei centri antiviolenza, come spiega Romagnoli: «Appena è uscita la misura avevo fatto fare domanda a cinque donne e ne hanno accettate solo due. Di fatto, ci sono un sacco di domande inevase».
C’è poi il dato legato alla scarsità dello stanziamento rispetto alla ripartizione regionale: «Erano pochissime le domande ammissibili e i fondi si esaurivano immediatamente». Il tutto è legato anche alle macchinose modalità di richiesta: «Le donne dovrebbero farsi fare, dai servizi sociali, una certificazione di bisogno economico, però non sempre se la sentono di andare dai servizi a raccontare la loro storia».
In aggiunta, alcuni Comuni hanno richiesto l’Isee per poter erogare il reddito: «Ma se la donna risultava essere ancora residente con il partner, aveva un Isee troppo alto per poterlo richiedere». La legge di bilancio 2024, inoltre, ha stabilito l'esonero dei contributi previdenziali per i datori di lavoro privati che, nel triennio 2024-2026, assumono donne disoccupate vittime di violenza, beneficiarie del reddito di libertà. Ma, come ricorda Romagnoli, «pochissime possono accedere al reddito di libertà, di conseguenza questa misura è uno specchietto per le allodole».
Ancora una volta, dunque, ci si trova a ribadire come il reddito di libertà sia una risorsa con fondi insufficienti e con una cifra erogabile, portata ora da 400 a 500 euro al mese per soli 12 mesi, troppo esigua per poter realizzare una vita libera e autonoma.
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