La destra si compiace dello scalpo ottenuto, a sinistra qualcuno – curiosamente pochi, contati con il contagocce – si rammarica: le dimissioni di Ernesto Maria Ruffini da presidente dell’Agenzia delle entrate, annunciate in un’intervista sul Corriere della Sera, erano nell’aria; semmai a sorprendere è l’accelerazione della decisione. Ma da quattro giorni i giornali amici della maggioranza lo avevano messo nel mirino.

Perché lunedì scorso Ruffini ha partecipato a un seminario sull’impegno per la Costituzione e il «bene comune» organizzato da un gruppo di cattolici guidato da due ex Margherita doc, Peppe Fioroni e Lucio D’Ubaldo. Per la destra quelle riflessioni sull’impegno civico erano già un impegno militante. Un impegno smentito, ma, va detto, di cui a sinistra si discute da un mese almeno.

Le dimissioni richieste arrivano, dunque. Ruffini nega, per ora, l’intenzione «scendere in campo» politico, rivendica la sua partecipazione al dibattito pubblico (oggi sarà in Vaticano a parlare di «Carità sociale e politica», con Prodi). E dice cose pesanti del malsano rapporto fra il governo e l’evasione fiscale: intorno al suo incarico «l’aria è cambiata», spiega, «Non mi era mai capitato di vedere pubblici funzionari essere additati come estorsori di un pizzo di Stato, oppure sentir parlare di Agenzia delle Entrate che tiene in ostaggio le famiglie, come fosse un sequestratore».

Ma al di là del credibile malessere istituzionale, meno credibile è che non stia valutando un impegno diretto alla ricostruzione di un’area di centro. Guarda caso giovedì sera, a intervista già impaginata, Romano Prodi a Piazzapulita aveva ammesso: «L’uomo è retto, capace, conosce il Paese, poi bisogna vedere se infiamma la gente. Il problema è questo».

Aspiranti leader si agitano

Il problema è questo. Ruffini al momento non è conosciuto, la destra lo descrive come “Mister Tasse”, e per ora non rappresenta nessuno, se non l’area dei cattolici democratici in cui si è formato. Dietro il suo passo, o accanto, c’è il Professore, suo amico ed ora suggeritore. È nota la sua amicizia con il presidente Sergio Mattarella; e con padre Francesco Occhetta, gesuita vicino a papa Francesco.

È figlio di ministro (Attilio, democristiano) e fratello del giornalista Paolo, già direttore Rai ed oggi prefetto della comunicazione della Santa Sede. Ma non sono il curriculum e le frequentazioni a fare di lui un dirigente politico. Tanto meno un leader.

Eppure il suo nome mette in agitazione tutti gli aspiranti al ruolo. Il sindaco di Milano Beppe Sala si sbraccia per offrirsi; Carlo Calenda dà il «benvenuto» a Ruffini che stima «tantissimo», ma sulla leadership è sarcastico: «Sembra quella scena di Guzzanti che interpretando Veltroni dice “Chi possiamo candidare? Napo Orso Capo, i Fichi d’India, Amedeo Nazzari... Amedeo Nazzari è morto!”». Clemente Mastella, da Un giorno da Pecora (Radio1), è lapidario: meglio Ruffini di Sala, comunque «non va da nessuna parte», «Ma poi, scusate: non mi hanno invitato a quel convegno, a me che sono il più considerato tra quelli di centro. Vi sembra normale?».

Enrico Borghi, di Iv, avverte: «La politica non è X Factor». Matteo Renzi consiglia a Sala di pensare a Milano, ed è il meno acido verso Ruffini: su Repubblica lo invita a cercare «il consenso dei moderati a cavallo fra centrosinistra e centrodestra».

Leader del centro o di tutti

È questo che vuole fare? È il dubbio che spiega la curiosa freddezza da parte Pd. La destra invece spara: «Se ha scelto di fare politica e fa dichiarazioni politiche è giusto che lasci», lo liquida Luca Ciriani, il ministro per i Rapporti con il Parlamento. Il forzista Maurizio Gasparri: «Bene ha fatto a sgombrare il campo perché le sue iniziative politiche erano palesi ed erano difficilmente conciliabili con il ruolo che svolgeva».

La Lega emette un comunicato ufficiale: «A Ruffini auguriamo le migliori fortune, ma ben lontano dai portafogli degli italiani».

Da sinistra invece, poche voci commentano solo le parole «di un servitore dello Stato di grande levatura», come Antonio Misiani e Matteo Ricci. «Lo Stato perde un dirigente di valore», Alberto Losacco, area franceschiniana. «Ha fatto una scelta personale che rispettiamo», Francesco Boccia. Solo Enzo Amendola allude a un futuro politico: «Buon vento».

Al Nazareno la missione di Ruffini è ancora un’incognita. Alcuni “amici” cattolici hanno spiegato a Elly Schlein l’idea di una rete di mondi centristi, cattolici e moderati. Un’aggregazione che manca come il pane al centrosinistra, la segretaria ne è consapevole. E così le aree cattoliche e riformiste che la sostengono, come Areadem: sono ben piantate nel partito, ma vedono l’urgenza di una forza alleata che, viene spiegato, «intercetti il civismo e provi a sgonfiare i consensi di Forza Italia». Ma circola il sospetto di un’altra ambizione di Ruffini: quella di offrirsi come candidato premier, con l’idea che la segretaria sia troppo di sinistra per raccogliere consensi maggioritari nel paese.

Ma questo non esiste per il Nazareno, dove viene applicato, senza dirlo, il principio che vale a destra: in caso di vittoria, chi prende più voti va a palazzo Chigi. Ruffini voti non ne ha. Ha una reputazione alta e amici prestigiosi. Ma non è un novello Prodi: che quando si candidò premier era già una presenza politica poderosa, e un riferimento delle forze dell’Ulivo.

© Riproduzione riservata